Abitare il transito di Carlo Giacobbi
È una poesia di ricerca, una poesia metafisica, quella che Carlo Giacobbi ci propone in Abitare il transito, il cui titolo rimanda alla tensione perenne di possedere l’esistenza, di viverla con la consapevolezza di viverla, una sorta di metaesistenza da rinvenirsi nel pensiero, per trovarne il senso nel fluire del tempo attraverso il quale transitiamo. Si tratta di una silloge scandita in parti, ognuna delle quali richiama in esergo altri testi, quasi a sottolineare il fluire di un pensiero da una voce all’altra in tempi che si susseguono, implicitamente dichiarando con questo che nulla è immoto, perché anche la parola è movimento, perché, come disse Pavese, “ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra, che già viviamo, e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi”, e a ribadire che “c’è comunque grazia nel mondo, c’è bellezza” e che queste vanno riposte in una ricerca inesausta, anche se ”tutto è in forse”, anche se “ogni indagine s’arresta sul ciglio del comprensibile”.
Ed è proprio il fluire la cifra caratteristica di questa silloge, lo è fin dal titolo dove abitare il transito suggerisce l’idea della vita stessa, necessariamente confinata in tempi e spazi, ma nello stesso tempo mobile, soggetta ad essere e divenire insieme, in un connubio che sa di opposizione solo apparente, dal momento che panta rei, ogni cosa scorre, transita da un inizio a una fine in una serie di attimi fissi la cui successione dà vita a un fluire interrotto solo dalla fine. La contraddizione implicita nel titolo riconduce all’unità degli opposti sostenuta da Eraclito secondo il quale nessuna realtà può essere se stessa se non opponendosi a un’altra, in una eterna guerra che è, sempre secondo il filosofo, la madre di tutte le cose, il logos del mondo. Una sorta di concordia discors che trova unità nella poesia, quasi questa possa diventare pacificatrice di un conflitto che è insito nell’esistenza stessa. L’antitesi, e la dualità, si ripete in altre parti dell’opera, nel richiamo al buio e alla luce, per esempio, o nel ricordare, attingendo da Hugh Auden, che anima e corpo non hanno confini, e anche nel proclamare il desiderio costante “di cielo e terra insieme”, a richiamare, ancora una volta, la necessaria unità degli elementi che costituiscono l’esistenza, dentro e fuori di noi.
Se dunque la vita è ricerca, se è “indagare il fine di ogni cosa”, la poesia si configura come il livello più alto cui tendere per dare un senso all’esistenza, per giungere al sia pur “labile approdo dell’inconcluso offerto ai contemplanti” anche quando questo si risolva nel permanere di un segreto oltre il quale “non c’è che oltranza”.
Ed è un poetare che si snoda attraverso onde di pensiero, quasi a emulare il procedere sinuoso dell’esistenza, disseminando i versi in successione senza ancorarli nella pagina ma protraendoli in quella successiva, frantumando l’unità e compattezza del verso, in uno scorrere della poesia che è lo stesso scorrere del tempo nei giorni e negli anni, per procedere in questo transito che ci è dato, in cui ci ritroviamo “a percorrere corridoi che danno su porte, su altri corridoi, su altre porte” oltre i quali ci aspetta “l’ipotesi” in cui trapela drammaticamente il dubbio, “di un luogo che ospiti la vita quando più non la si vede”.
C’è, forse, in questi versi un pessimismo soffuso e delicato, un “inverno fuori. Inverno dentro”, un “passo nell’aria sospeso” tra “nudità di trame” e “lame algide” che percorrono le ossa, con l’unica certezza “di sapere la cera non eterna” e lo sconsolato abbandono a quel richiamo “lascia stare, molla tutto”, contraltare all’andare necessario e ineludibile racchiuso invece nell’abitare il transito, di cui pure sappiamo che prima o poi “ difetti la luce incupita della nostra stessa esistenza”.
E pure, la ricerca stessa è appagamento, perché, dice Giacobbi in un bellissimo inciso, “figlia”, che è quasi un’invocazione, “è questa ricerca di senso che fa umano il durante”, e la sua poesia finisce per essere un lascito, a dimostrare che “comunque tu lo intenda, seppure losco disegno del caos” (e qui viene da pensare al responso di Sileno a Mida e al suo tragico definire l’essere umano figlio del caos e della pena) “cosa grande è il mondo; quel che d’amaro può attingere la lingua non muta il prodigio del suo avvenimento”.
Per finire con quell’ultimo bellissimo verso che suona da monito e da impegno, tanto più in tempi come questi in cui la poesia e la bellezza sono i soli argini a un vivere minacciato: “cosa rara è il mondo” in cui si consuma il nostro unico e irripetibile abitare il transito, “opera imperfetta…ma da lasciare increduli di sé nel contemplarla”.
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