Alle origini del giallo italiano: Ezio D’Errico e il commissario Richard
Ezio D’Errico (1892-1972), uno dei primi giallisti italiani, è un personaggio eclettico, molto dotato, ricordato soprattutto perché il suo romanzo La casa inabitabile (1941) è stato l’ultimo poliziesco pubblicato da Mondadori prima della chiusura della famosa collana “I Libri Gialli” a opera del governo fascista “per ragioni di carattere morale”. Collana che riaprirà nel 1946, dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Pittore, giornalista, autore radiofonico, commediografo, saggista, sceneggiatore e scrittore, D’Errico scherza sul suo bisogno di cimentarsi in molti campi e di cambiare spesso mestiere: “Io dipingo, plasmo, scrivo articoli, commedie, novelle, romanzi, biografie, faccio scuola, mi occupo di pubblicità, di tipografia, di impaginazione e di cento altre cose. Questa potrebbe sembrare puerile vanteria in bocca a chiunque, ma io posso dirlo perché sono così intelligente da strafischiarmene di tutto quello che faccio, da ridere dei miei quadri e delle mie commedie, delle mie novelle e dei miei romanzi, ho l’intelligenza di strafregarmene della mia intelligenza, e di giocarmi tutta la mia vita almeno due volte l’anno, cambiando mestiere, paese, amici e attività, perché posso rifare cento volte la mia vita”.
Per Mondadori pubblica ben diciannove romanzi polizieschi. Il primo è Qualcuno ha bussato alla porta (1936), in cui fa il suo ingresso nella scena letteraria il commissario Emile Richard della Sûreté di Parigi. Grosso, pelato, il viso sempre sbarbato e un po’ flaccido, con un paio di sopracciglia nerissime e cespugliose che “mettevano sugli occhi piccoli e grigi due accenti circonflessi, così caratteristici da far sì che, vista una volta, quella faccia non si poteva dimenticar più”, Richard ha ormai passato i sessant’anni, è scapolo, accudito dall’apprensiva sorella Geneviève, con la quale condivide “gli agi e i disagi di un doppio celibato”.
Richard ricorda per molti versi il commissario Maigret a cui D’Errico si ispira esplicitamente. Anzi, lo scrittore ambisce a diventare il Simenon italiano, approfittando del momento in cui Maigret, dopo il suo ultimo caso ufficiale, La chiusa n° 1, va in pensione e scompare, temporaneamente, dal panorama letterario.
Richard si è fatto da sé e appartiene a una generazione di investigatori ben lontana dai modelli anglo-americani, tutti logica e muscoli. Tralascia gli indizi scientifici a vantaggio di quelli psicologici: “Vedere, capire, vivere della vita degli altri, scendere nei meandri della loro anima, immedesimarsi nella loro psicologia, questo era il sistema e soprattutto il bisogno del commissario Richard, che non aveva mai aperto un libro di Morselli e tantomeno di Freud. «Metodo… metodo» ribatté Richard «io non lo chiamo neanche metodo, è una necessità, non è un metodo… Ogni uomo agisce secondo la propria indole, secondo la propria origine, la propria educazione… ogni individuo è costretto a fare tutto quello che fa come se eseguisse degli ordini… mi spiego? Ecco perché in presenza di un delitto io non mi preoccupo tanto delle impronte e dell’esame chimico e di tutte le altre bellissime cose che insegnano i libri di Polizia Scientifica, quanto mi preoccupo dell’anima dei protagonisti, ma che dico… delle loro abitudini più pedestri… delle loro manie… dei loro vizi… delle loro miserie… ecco quello che conta in un’inchiesta di polizia!”.
Umano al massimo grado, il commissario Richard con certi assassini diventati tali più per disgrazia che per malvagità, a volte chiude un occhio. E dice: “Le peggiori difficoltà le ho incontrate con i miei superiori e con me stesso, le uniche soddisfazioni me le hanno date i criminali. Ecco perché ho finito per prendere in uggia tutta la Prefettura di Polizia, me compreso… mentre non sono mai riuscito a odiare i delinquenti che ho perseguitato”.
Parigi, che D’Errico conosce bene per avervi soggiornato a lungo in qualità di pittore astratto, è la città di cui Richard è innamorato, una “città insaziabile che gli aveva preso tutta l’esistenza, che lo aveva fatto soffrire e smaniare, gioire e piangere”, lontano dalla quale si sente disorientato “come se attorno invece che il francese si parlasse un dialetto del Perù o dell’Indostan”. È la Parigi delle portinaie impiccione che cucinano zuppa di cavolo, degli artisti bohémien che popolano le soffitte e conducono una vita di stenti, dei segreti nascosti dietro le porte e le imposte chiuse dei palazzi. Una città che turbina di vita, scintilla di luci, si spalanca nelle piazze, e il cui respiro è un alito infuocato.
Ezio D’Errico, artista dotato, secondo Camilleri, “di una genialità rinascimentale”, autore di gialli letterari che narrano semplici e dolorose vicende umane, muore dimenticato. I suoi libri, non più ristampati da tempo, si trovano solo in formato e-book a cura delle edizioni Falsopiano.
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