Bisanzio in Puglia. Schegge di bellezza nel Salento
I Bizantini sono presenti nel Mezzogiorno sin dal VI secolo, quando Giustiniano, imperatore del Regno romano d’Oriente, sconfigge gli Ostrogoti, attaccandoli prima dalla Sicilia e poi da Otranto, futuro fulcro della presenza bizantina del Mezzogiorno. La guerra aveva significato diciotto anni di scontri cruenti, che avevano ridotto allo stremo le popolazioni, ma nel 553 d.C. la Puglia è finalmente conquistata e Giustiniano, per mano del suo generale Belisario, può avviare la prima “colonizzazione bizantina”: alla lingua latina della dominazione romana e della liturgia cristiana si affianca la lingua greca, sempre più preponderante. Una seconda “colonizzazione bizantina” avviene tra l’871 e il 1071 d.C., quando i Bizantini riusciranno a difendere la Puglia dagli attacchi saraceni: Bari cade nelle mani di Bisanzio nell’875 d.C., Taranto nell’880. La strategia dei “catapani”, i governatori di Bisanzio in Occidente, è fare della Puglia la testa di ponte per diffondere la cultura di Bisanzio in tutto il Meridione, prima, e poi in tutto l’Occidente. Studiando lo sviluppo dei centri abitati, risulta evidente come i Romani d’Oriente preferiscono sempre le città costiere a quelle sulle Murge: Brindisi, Gallipoli, Siponto, Taranto, ma soprattutto Otranto, il porto più importante della marina bizantina, e Bari, capitale del Catapanato pugliese. La presenza di Bisanzio rimarrà stabile sino alla comparsa dei Normanni dopo il Mille, ma, anche in seguito alla diffusione dell'arte romanica in Italia meridionale, continuerà a manifestarsi nei cicli pittorici tipicamente bizantini e nel mantenimento, in molte chiese salentine delle pratiche rituali greco-ortodosse in sostituzione o conviventi con quelle latino-cattoliche, perlomeno fino al 1500.
A raccontare oggi questa storia, sopravvissuta ai secoli e ai cambiamenti, sono le numerose cripte e chiesette sfuggite all’usura del tempo e all’incuria degli uomini, e il griko, ancora parlato nella Grecìa Salentina.
La Chiesa di San Pietro di Otranto rappresenta un’importante testimonianza nell’epoca in cui la città era divenuta sede metropolitana alle dipendenze della sede patriarcale di Costantinopoli. A seguito di un lungo dibattito sull’analisi della struttura architettonica, delle decorazioni interne e delle iscrizioni in lingua greca, l’epoca di edificazione è stata ricondotta al IX-X secolo. La chiesa ha una pianta a croce greca, tipicamente orientale, e le tre piccole navate sono coperte da una cupola centrale, sorretta da quattro colonne e traforata da quattro aperture. Ogni navata termina con un’abside semicircolare, decorata interamente da affreschi.
Le pitture più antiche raffigurano scene Cristologiche: “l'Ultima Cena” e “la Lavanda dei Piedi”, dove si può leggere un’iscrizione in caratteri greci del passo di Giovanni (XII, 8-9): Pietro gli disse: «Non mi laverai mai i piedi!» Gesù gli rispose: «Se non ti lavo, non hai parte alcuna con me». E Simon Pietro: «Signore, non soltanto i piedi, ma anche le mani e il capo!». Al XIV secolo risalgono invece la “Natività di Gesù”, la "Pentecoste” e la “Resurrezione". Nel catino absidale, la "Vergine orante" con il Bambino benedicente seduto tra le ginocchia è affiancata da due angeli inginocchiati. Questo affresco è da attribuire al 1540, come indica la data dipinta al di sotto, ma ripete uno schema iconografico molto più antico, come si vede dalla posa ieratica, dalla totale frontalità, dalla composizione rigidamente simmetrica, dalle modulazioni chiaroscurali lineari. Anche la “Presentazione al Tempio” e altre figure di “Santi” sono riconducibili al XVI secolo.
Anche la Cripta rupestre di San Vito Vecchio a Gravina è di grande interesse. I suoi resti si trovano nel rione Fornaci (ma è preferibile visitarne la fedele ricostruzione nel Museo della Fondazione Pomarici-Santomasi), con una facciata con ingresso ad arco sormontato da una finestrella rettangolare affiancato da due feritoie al centro di due archetti ciechi. Ma è soprattutto il ciclo di affreschi sulle pareti e nell’abside ad attrarre l’attenzione, attribuiti all’opera di maestranze locali attive a cavallo tra il XIII ed il XIV secolo tra Puglia e Basilicata, capaci di fare proprie le tecniche e le iconografie della più antica arte bizantina. Il complesso è fra i meglio conservati del ricco patrimonio di pittura a fresco pugliese d'epoca medievale. Nel catino absidale, sopra l’altare, giganteggia maestoso il Cristo Pantocratore seduto in trono, la cui spalliera ricurva, seguendo l'andamento dell'abside, assume la forma di una mandorla retta da quattro angeli.
Il Cristo, dal volto allungato e con grandi occhi fissi, secondo la tipologia bizantina, indossa una tunica purpurea decorata da perle sotto un mantello azzurro. Con la mano destra benedice alla maniera greca mentre con la mano sinistra regge un “Libro” aperto su cui si legge: EGO SU(M)/ LUX MUNDI/ Q(UI) SE/ QUITUR ME NON/ A(M)BULAT IN TE/ NEBRIS/ SE(D HABE)BIT/ (LUMEN) VIT(AE)/ D(OMI)N(U)S (Giovanni, VIII, 12). Il profilo esterno dell'abside è percorso da una fascia che presenta un motivo decorativo geometrico a zig-zag, forse di lontana ascendenza islamica. A sinistra è la bella scena delle Mirofore, tipiche del cristianesimo ortodosso (indicate semplicemente come le tre Marie nel cristianesimo occidentale), che, giunte al sepolcro per ungere il corpo del Signore, si arrestano stupite di fronte alla pietra scoperchiata, al sepolcro vuoto e alle guardie addormentate, mentre l’angelo annuncia loro che Gesù è risorto, indicandolo con il dito. Segue il santorale con le immagini di Pietro, Lazzaro, Giacomo il maggiore, Basilio, Caterina, la vergine con il bambino, Bartolomeo, Nicola e Margherita.
La Cripta si trova oggi in un giardino di proprietà privata, nel quartiere Fornaci, così chiamato per la forte concentrazione in tempi passati di botteghe di fornaciari e di maiolicari oramai scomparse, nei pressi del cimitero di Gravina, alla fine della via denominata San Vito Vecchio, da cui traggono il loro nome, e nell'ambito della civiltà rupestre della "gravina". La cripta originale, al di sotto del piano stradale, era stata prima abbandonata, poi ridotta a deposito di rifiuti e, infine, usata come cisterna di acqua piovana: sul soffitto della cripta si può ancora vedere una grossa fessura che permetteva all'acqua piovana di filtrare all'interno, origine della compromissione degli affreschi. Prima che fosse troppo tardi, lo Stato intervenne nel 1956 acquistando il ciclo pittorico e staccandolo dalle pareti umide per provvedere al restauro conservativo. Le operazioni di stacco dalle pareti furono effettuate dai tecnici della Soprintendenza di Bari in collaborazione con l'Istituto Centrale del Restauro di Roma utilizzando la tecnica a sezione, seguendo cioè le fratture presenti sulle pareti, in modo da scongiurare il pericolo di rotture. Gli affreschi vennero quindi portati a Roma all'Istituto Centrale del Restauro, dove rimasero sino al 1958.
A restauro ultimato, dopo alcuni “viaggi” in Italia e all’estero, gli affreschi furono depositati nella Chiesa sconsacrata di San Francesco della Scarpa di Lecce sino al 1967, in attesa del completamento del Museo del Rupestre nel Castello di Carlo V. Tale operazione, però, non fu portata a compimento, per l’estenuante braccio di ferro, durato circa due anni, tra la Città di Gravina e la Soprintendenza di Bari, alleate nell'affermare il sacrosanto diritto di Gravina a rientrare in possesso degli affreschi di San Vito Vecchio, da sempre legati alle vicende storiche e artistiche della città, e lo Stato, che considerava gli affreschi gravinesi, insieme a quelli provenienti da Santa Maria degli Angeli di Poggiardo, il primo nucleo del costituendo Museo del Rupestre di Lecce. La polemica divampò nuovamente quando, vinta la battaglia per il ritorno a Gravina, si dovette procedere alla scelta degli ambienti idonei ad accogliere definitivamente gli affreschi. Nel 1956 lo Stato aveva infatti acquistato solo gli affreschi, non tutto il sito con il relativo giardino circostante. Il c.d.a. della Fondazione, che si era nel frattempo costituita, si adoperò mettendo a disposizione alcuni locali al piano terra del Palazzo Pomarici-Santomasi, per l’occasione adattati e attrezzati per consentire una adeguata ventilazione e un controllo delle condizioni climatiche ed ambientali. Così, finalmente, nel 1967 gli affreschi fecero ritorno a Gravina e, dopo i necessari lavori di sistemazione, furono resi disponibili per la fruizione pubblica nel 1968. I tecnici della Soprintendenza di Bari, con l'Istituto Centrale del Restauro di Roma, li sistemarono alla stessa altezza e nella stessa posizione rispetto alla collocazione originaria sulle pareti di una struttura moderna costruita a imitazione della cripta, con le sue stesse dimensioni, compreso il portale, di cui fu fatto un calco in gesso applicato all'ingresso.
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