Dalle pecorelle di Dante a Pasolini: un percorso attraverso l'omologazione
Uno dei versi danteschi più celebri è sicuramente: «Uomini siate e non pecore matte». Il verso è l’80 del canto V del Paradiso. Il verso, anche nelle più moderne letture, è sempre interpretato come contrapposizione tra ratio umana e spirito animale. Le pecore, meglio di ogni altro animale, impersonano l’incapacità di scegliere. Un concetto similare Dante lo esprime anche in Convivio I, XI, 9: «sono da chiamare pecore, e non uomini» coloro che non scelgono. Poi continua «Lo pensiero è proprio atto de la ragione, perché le bestie non pensano, che non l’hanno, e non dico pur delle minori ma di quelle che hanno appartenenza umana e spirito di pecora». La pecora ha sempre avuto una accezione negativa se legata alla ragione e al pensiero, ha da sempre impersonato lo spirito ignavo. Ad esempio Aristotele nel Τῶν περὶ τὰ ζῷα ἱστοριῶν (Historia animalium) scrive: «Genus ovile amens et moribus, ut dici solet, stultissimus est, quippe quod omnium quadrupedum ineptissimus est» (I, 9, c). Aristotele ci dice che il genere ovino è privo di cervello, perciò anche di iniziativa. Alle pecore sin dall’antichità sono sempre attributi dei comportamenti distintivi come l’inettitudine, la mansuetudine e la passiva imitazione di modelli senza discernere tra quelli negativi e quelli positivi. Dante in Convivio I, XI, 9-10 aveva ampliamente affrontato tale tematica: «Questi sono da chiamare pecore, e non uomini: ché, se una pecora per alcuna cagione al passare d’una strada salta, tutte l’altre saltano, eziandio nulla veggendo da saltare, ed io ne vidi già molte in un pozzo saltare per una che dentro vi saltò, forse cercando saltare un muro, nonostante che il pastore, piangendo e gridando, con le braccia e col petto dinanzi ad esse si parava». Torna nuovamente sull’argomento in Purgatorio, III, 79: «Come le pecorelle escono dal chiuso / e ciò che fa la prima e l’altra fanno / addossandosi a lei s’ella s’arresta, / semplici e quiete, e lo’mperché non sanno». Dante aveva intuito come il comportamento delle pecore somigliasse molto a quello di alcuni uomini.
Questa avversione di Dante nei confronti di comportamenti “conformistici” la ritroviamo in uno dei più grandi intellettuali del Novecento, Pier Paolo Pasolini. La battaglia di Pasolini contro la globalizzazione e l’omologazione è arcinota, ma un suo intervento in Tempo è esplicativo e riassuntivo di tutte le sue idee sulla questione. L’intervento tenuto il 3 settembre del 1968 è di carattere psicanalitico. Esso si apre con un richiamo alle paure primordiali dell’uomo: «Al lettore medio, cioè di cultura media – o che perlomeno abbia scarse nozioni di psicanalisi – sembrerà molto strana la seguente affermazione: noi siamo ancora determinati nel nostro destino, dalla paura dei essere maniati»[1]. Un incipit emblematico, in pieno stile pasoliniano. Nell’intervento, Pasolini, partendo dalla paura primordiale della fagogitazione, giunge alla paura contemporanea di essere inglobati, assorbiti, “mangiati”, da un sistema globalizzato completamente fuori controllo, ove l’individuo non è altro che un numero. L’intellettuale anche in questo caso rientra nel discorso, poiché, diversamente dall’uomo comune o “medio”, è il primo a sentirsi fagocitato e fuori luogo, senza più un suo ruolo nella nuova società globalizzata. «A nessuno di noi che viva con curiosità questi anni, è sfuggito che è diventato ossessivo l’uso della parola “sistema” e della sua negazione (il “dissenso”, la “contestazione”): è una situazione tipica delle società molto avanzate…L’odio ossessivo, cieco, indiscriminato, totale, intimidatorio verso chi non lo condivide (tale da creare una sorta di conformismo terroristico della contestazione), può essere espresso sinteticamente in una nozione-guida, che cui origini dirette sono in Marcuse, per cui il “sistema” finisce sempre per assimilare tutto, con l’integrare ogni possibile diversità naturale o contestazione razionale ecc»[2]. Le parole di Pasolini sembrano essere scritte poche ore or sono, pensiamo alla loro ficcante attualità, sembra quasi che si inizi a parlare di un pensiero unico dominante, del quale oggi tanto si discute. Già in quegli anni egli aveva intuito che la dittatura globalizzante e cosmopolita ben presto si sarebbe rivelata peggio dei regimi nazi-fascisti, poiché proprio lo sviluppo economico aveva portato ad un controllo ancor più totalizzante e totalizzato dei mezzi di comunicazione, che nei nostri anni è quasi esasperato, al limite del ridicolo e del paradossale. «il terrore di essere mangiati, ossia l’identificazione con un archetipo storico-biologico di una situazione estremamente nuova»[3]. Quello che ci racconta Pasolini è il terrore dell’omologazione, di entrare per forza a far parte del “sistema”. «Tale desiderio di autodistruzione – come psicosi collettiva – non è tipico soltanto di chi nega o contesta il sistema: ma è tipico piuttosto dell’intera umanità che vive con naturalezza nel sistema»[4]. Il sistema globalizzante sostanzialmente si suddivide in due macro gruppi: il primo omologato che vede tutto il resto come extraterrestre, il secondo che invece teme la fagocitazione del sistema.
Due grandissimi pensatori del passato che vedono e interpretano il male dell’omologazione allo stesso modo, dalle pecore di Dante alla paura di essere fagocitati di Pasolini.
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[1] Tempo, anno XXX, n. 36, 3 settembre del 1968.
[2] Tempo, anno XXX, n. 36, 3 .settembre del 1968
[3] Tempo, anno XXX, n. 36, 3 settembre del 1968.
[4] Tempo, anno XXX, n. 36, 3 settembre del 1968.
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