Fabio Padovan - Disordine nei tuoi occhi
A cosa serve la poesia? Domanda assolutamente non cavillosa ma pertinente, eppure non esistono risposte certe. Ogni testo poetico è una forma d’arte che utilizza e rielabora il linguaggio, per esprimere emozioni e sentimenti. Duccio Demetrio dice che la scrittura risponde spesso al bisogno interiore di individuazione, è una forma di cura e di autoguarigione. Raccontarsi e raccontarsi in versi sono parte di una strategia di sopravvivenza per superare un passato traumatico. Si tocca la propria ferita esistenziale, dice anche Hillman nel suo bellissimo saggio, Il codice dell’anima, per trovare la propria collocazione nel mondo, attraverso la difficile emersione del talento artistico.
Il mio corpo si stagliava nero / sul riflesso di un bell’istante / quant’effimero stavo nel boato postumo. / Era una garza di luce lo sconvolgimento nei miei occhi.
Così Fabio Padovan confessa nei versi la sua fragilità e tuona la sferza sanguigna della scrittura. La poesia, come ogni linguaggio creativo, fa parte di un processo terapeutico, e in questo senso ogni arte può avere un effetto taumaturgico. Scrivere è un atto creativo e curativo del sé. Chi più profondamente è stato ferito, non amato, maggiormente si mette alla ricerca della propria anima e insegue la propria voce, quella cifra linguistica che lo radica, lo nomina. Obbedisce a una spinta interiore incancellabile, per lasciare una testimonianza significativa, graffito sulla roccia, nota sul pentagramma, testamento di vita e di esistenza. Fabio Padovan scrive, afferma, per guarire dentro. E così indica con sincera precisione, la direzione della sua ricerca poetica. Come ha affermato Gustavo Sagreblesky, parlando dell’Ecclesiaste e dell’eterno enigma che si pone Qohelet se si deve togliere senso alla vita per sconfiggere la paura della morte, ogni uomo ha necessità di sentirsi parte dell’umanità, “quell’umanità che è il risultato dell’infinità di vite che hanno lasciato i propri segni. “
Dall’onda veloce essa / cade ricade scrocchia e / sonnecchia minimalista / in bianco rosa tagliente/calcando leggera il cielo / ingiallito di solitudine. / Dal suo volto ho tratto la salvezza.
Ecco una strofa illuminante, quasi all’inizio della silloge. Svela subito lo sguardo rivolto al cielo, al passaggio delle nubi e del vento. E in questa scia di pensiero si può collocare l’esperienza poetica di Padovan: lasciare una traccia aperta, umile e descrittiva per trovare il tempo e lo spazio del proprio essere nel mondo, superando la minaccia percepita dall’esterno, dall’altro. Vivere il gesto poetico come sublimazione di un’ angoscia profonda, usare la voce per trasformare ogni percezione destabilizzante in immagine che pacifica, solleva, conforta. E quindi la domanda posta all’inizio di questa riflessione non ha una riposta univoca e filosoficamente determinante ma apre un ventaglio di affermazioni personali, soggettive e originali. Ogni forma d’arte è sicuramente testimonianza prettamente umana di resistenza e di resilienza all’inquietudine, al disagio esistenziale, allo spaesamento. Siamo tutti gettati nel mondo, afferma Heidegger e l’uomo moderno è segnato profondamente da questa condizione esistenziale.
Foreste, foreste di sguardi / nella molle terra mi inseguivano / e io affondavo nel terriccio volubile / d’una rossa passeggiata fragile / che blu d’improvviso mi squarciava.
Padovan cerca, attraverso la costruzione dei suoi frammenti poetici, il baricentro psicofisico, dando voce allo sguardo disordinato sulle cose, sul mondo. Il disordine degli occhi è di colui che percepisce con sofferenza il reale e ciò che è esterno come limen, confine ultimo di una viandanza che non finisce mai. Essere viandante tra le cose, vivere fino in fondo la natura come sfondo disperante. Sentire la propria fragilità come segnatura profonda e usare la scrittura per fermarla sul foglio, per esorcizzare tutto il dolore vissuto come uno squarcio nel petto. Entrare ed uscire dalla realtà come esercizio difficile e affaticante, usura ultima di un’alienazione esistenziale, di una estraneità che va ogni giorno combattuta con la disciplina dello sguardo.
Il viandante sulla riva sta accarezzando l’onda / è un cencio / guarda gli uomini scivolare avventati / come una madre d’abbandono
Guardare ogni giorno intorno a sé, per riprendere contatto e atterrare nel reale senza farsi male. Padovan è il poeta viandante che cammina assorto nei campi estivi, guardando gli alberi, il mare e ogni dettaglio come se pregasse per la sua salvezza. Possiamo noi sconfiggere le nostre battaglie interne, i demoni che ci affliggono, provando estrema tenerezza verso il creato e il Creatore? Una poetica metafisica si svolge pagina dopo pagina, una lotta estrema tra l’uomo e gli uomini, tra l’uomo e la natura , tra l’uomo e Dio.
Ricorda le guglie / affusolate di pianti e santi / scricchiolare dondolare la gioia / scivolando nei varchi variopinti. / Il ceppo della vita / rimane nella casa / unendo il silenzio. / Il tempo è l’anziano volto di cartapesta che / in stasi ti guarda. / Laggiù le vie di fuori/ scorrono.
Ma non è il nostro disagio esistenziale che ci rende poeti. Possiamo dire, ricordando la vita di Dino Campana e di Alda Merini, che la poesia emerge a prescindere dalle nostre ferite e dalla nostra fragilità. Non tutti i sofferenti, i non amati, diventano poeti ma ogni poeta può nascondere una ferita.
Padovan cerca a ogni pagina la luce, la sua luce tra le cose. Usa ogni parola come un puntello speciale per illuminare l’orizzonte e sposta con tenacia e determinazione ogni pensiero buio che diventa il filo sotterraneo da cui prendere le distanze. La scrittura poetica costruisce il perimetro di questa distanza, quasi un cerchio di protezione che abbraccia l’uomo e il poeta, arma vincente nella battaglia non violenta dentro se stesso. Il disordine negli occhi viene sconfitto dallo sguardo verso la bellezza che salva, che offre una tregua, che ristora.
Giorno da piano lento / sorso di calma allentata / nei tuorli del violaceo occhio / splende.
E non per forza chi è ferito trova la scrittura poetica come asse fondamentale della propria vita creativa. Lo sconcerto davanti alla propria diversità ci rende persone sensibili, a volte rinchiuse nella fortezza dolorosa del danno, ma la poesia è una voce che ci viene a cercare comunque. E la ricerca delle parole, il ritmo nei versi , le assonanze e le allitterazioni, le immagini che emergono dal pozzo interiore sono qui il segnale di una vocazione poetica che va oltre ogni disperazione.
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