HOMINEM PAGINA NOSTRA SAPIT
Il poeta è un “versicida”. Uccide i versi che morendo si fanno poesia, “come l’omicida che nella morte cerca la vita”.
Il neologismo “Versicidio” è il titolo della nuova silloge di Riccardo Delfino, che aveva esordito nel 2021 con “Il sorriso adolescente dei morti” libro peraltro riuscitissimo, recensito sui più importanti blog di poesia e inserti di cultura come La Lettura del Corriere.
In questa nuova opera, uscita nella collana “Deserti luoghi” di Terra d’Ulivi, curata da Giovanni Ibello e con una preziosa postfazione di Vittorino Curci, troviamo tre sezioni “Necessità”, “Baricentro” e “Terraferma” che indagano con sapienza chirugica il rapporto che la poesia intrattiene con la violenza, con la morte, con la parola.
Come scrive Curci alla fine del libro, per Delfino, classe 2000, “la poesia non è un gioco, ma una sfida all’ultimo sangue, una questione di vita o di morte”.
Riccardo Delfino appartiene a quell’ultima generazione di poeti affascinati dal mistero e dall’ineluttabilità della morte, spesso inferta senza scampo né pentimento, come nella sezione “Necessità”: anche l’assassino ha il diritto/dovere di dire la sua, di spiegare con minuziosi dettagli la procedura utilizzata per procurarsi il godimento dell’uccidere.
La morte è l’unico
amore che posso dare
dice l’omicida che procura asfissia alle sue vittime o sequestra giovinetti imberbi per settimane prima di gettarli alle mosche.
Lo stretto laccio che lega questa immonda e vorace violenza e il sesso è inevitabile eppure ognuno dei gesti compiuti per la soddisfazione dei sensi non produce nel carnefice la minima emozione:
Vergogna? Niente
è la sola emozione
che provo a iosa:
vergogna la prova
chi prova qualcosa.
Molto regolare il verso, musicalissimo e ricco di ripetizioni, consonanze, assonanze e rime, un verso in verità piuttosto breve, in alcuni casi stretto in quartine che ricordano la delicatezza di Sandro Penna:
Non ho mai baciato un ragazzo:
Ne bacio cento alla volta,
Di un corpo amo tutti i suoi sé
o non ne amo nessuno.
Il poeta uccide per necessità, per compiere un rito, e spesso scavando dentro i corpi cerca l’anima ma non trova altro “che la sua voglia di scavare”.
Però, come un’epifania, arriva d’improvviso la consapevolezza che la vita è tutto ciò che non è morte, quindi anch’essa è eterna e ineluttabile:
Ma il fuori è ancora un dentro.
Dalla vita non si esce neppure
col suo sventramento.
Una condanna. Una malattia. L’uomo sa di peccato e si porta dentro un morbo che è dato dal suo stesso nome, perché prima del nome si era sani: si era anonimi, probabilmente.
Il poeta è colui che più di tutti può arrogarsi il diritto di compiere il delitto del linguaggio: ogni parola è una cosa mancata, ogni parola pronunciata è un reicidio ma solo il poeta sa poetizzare il dolore di questo atto crudelissimo e inevitabile.
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