Il calderone
Opera di Edoardo De Candia

Il calderone

diDiego Riccobene

Gwion era un ragazzo, un contadino senza guiderdone alcuno, che si abbeverò presso una pentola fatata, quella approntata da Cerridwen, la Dea Scrofa, la Dea Bianca. Era stato incaricato di patrocinare il decorso di ingredienti necessari per completare una cozione, ma i fatti conobbero diverso svolgimento. Che sia stato un semplice spruzzo dell’intingolo che lo raggiunse, o che si sia trattato di un atto di deliberata volontà, questo non ci compete sapere. Ciò che interessa, è la ridda di eventi che seguirono quell’altro: Gwion fu inseguito dalla dea e mutò di forma per meglio fuggirla, forte di una nuova sapienza, di una facoltà di leggere il mondo in differente guisa: ella, nondimeno, seppe a sua volta adattare le sue membra: “Lui si mutò in lepre, lei in levriero. Lui si gettò in un fiume e diventò un pesce, lei si mutò in lontra. Lui si levò in aria a guisa di uccello, lei si mutò in falco. Lui diventò un chicco di frumento vagliato sul pavimento di un granaio, lei si mutò in una gallina nera”[1].

Così, e ben oltre, racconta il poeta Robert Graves in seno a uno dei libri di mitologia più labirintici che siano stati scritti, opera che oltrepassa il concetto comparatistico frazeriano, facendo del Ramo d’oro, vischio sacro e sibillina profezia, un semplice indizio prorogante, pretesto per un viaggio primitivo e sciamanico. 

Gwion, dicevamo: infine il giovane, dopo la danza di sfrenata metamorfosi (il cursus, che poi, suggerisce Graves stesso, è traslitterato nel suo passaggio etimologico della radice indoeuropea in curse: incantesimo, incantamento) mutatosi in seme e credendo di aver salva la vita, trova la tenace dea in forma di gallina, intenta a beccare ed ingoiare il seme stesso. Gwion a quel punto diviene in forma di feto, e sarà partorito dalla dea stessa, per poi approdare – come dite? Sì, certo, la faremo breve – presso la corte di un principe gallese che lo ama e lo cresce. Ma Gwion era colui che aveva assaggiato la sophia, ricorderete, era il sapiente e poeta. Era il puro, il Taliesin: salverà il padre adottivo durante una tenzone poetica, dove si produrrà in una serie di versi-indovinello. Il bardo, l’ollave: questo era dunque Gwion-Taliesin. 

Che la poesia sia affare di mutazioni ed enigmi, affare d’elezione, lo determina anche il Corpus Hermeticum. Nel XIII scritto che compone l’opera, si cita il diábolos, nell’accezione di “denigratore, calunnioso”: colui che, anziché farsi custode della verità rivelata, la “getta” lontano da sé alla massa indeterminata e indifferenziata, trasformando la luce in tenebra[2]; la parola non può essere divulgata, per questo Gwion (il quale la verità ha ricevuto, dicevasi, dal calderone, sorbendola seppur involontariamente) canta per enigmi, offre versi in apparenza insolvibili nel loro senso. La preghiera si fa poesia e la poesia preghiera, insegna il Trismegisto a Tot – “il tuo logos ti canta attraverso di me”[3]. Ancora più rilevante, ai fini della nostra tesi, il passo tratto dal XVI capitolo della medesima opera, ove è invece Asclepio a parlare, rivolgendosi al re Ammon: “coloro che leggeranno i miei libri ne troveranno la composizione semplicissima e chiara, mentre, al contrario, essa è oscura e nasconde il senso delle parole”[4].

La voce dell’ulteriorità è dunque solo apparentemente intelligibile, al punto che la poesia vede ricongiungersi la sua vera natura vocazionale (preghiera, atto rituale, richiamo alle voci invisibili) tramite il linguaggio dell’enigma, dell’oscurità che va riannodata e in parte sciolta, poi, mediante gli strumenti della sapienza e dell’intuizione. O della manìa, se vogliamo: è pur sempre quella che desta Apollo.

Secondo le testimonianze offerte da Plutarco, il linguaggio della poesia è quello oracolare: si propone l’ipotesi che probabilmente l’esametro fu udito per la prima volta scandirsi presso il santuario di Delfi – “la profezia avveniva in forma di poesia e di canto”[5].

Eppure, esattamente come il nostro tempo, già quell’epoca lamenta un venire meno del soffio del canto: per quale motivo, si domandano i giovani filosofi riunitisi a discutere sugli scaloni del tempio, la Pizia ha smesso di profetizzare in esametri? La risposta è fornita da Plutarco stesso per bocca di Teone (schermo dietro cui si cela l’autore stesso?): “L’uso del linguaggio è simile alla circolazione della moneta: l’abitudine e la diffusione fanno sì che venga accettata, ma essa muta nel corso del tempo”[6].

Il linguaggio degli ollave, del Taliesin, era quello che presso le società celtiche pre-sassoni permetteva di sedere al tavolo dei sovrani, accanto ai primogeniti e ai delfini, mai sottraendosi alla commissione etica del loro dispiegarsi; oggi invece ha perduto il suo valore sociale, in quanto la circolazione della “moneta” linguistica lo ha depauperato di qualsiasi valore profetizzante: il contemporaneo per lo più sorride al cospetto di cotali pretese, non senza quel soave e deboluccio afflato di pietà commista a fascinazione.

O ancora, consideriamo questa terza via: il poeta potrebbe trovarsi ad essere lui stesso diábolos, imparando a gettare la verità svelata in pasto al secolo attraverso la pretesa estetica (quindi – perché no? – etica) del proprio canto, mai con una lingua che paia di facile risoluzione; al contrario del detto ermetico (parla facile, significa oscuro), il rapsodo oggi potrebbe essere oscuro nel detto e nella forma, perché sia sempre la musica il privilegio di un dasein reclamato come fosse di diritto: si intingerebbe così nella tenebra del non-detto-in-apparenza. 

Se la luce dei pochi non riceve più alcun riconoscimento, sia dunque l’ombra a parlare per bocca delle Muse.

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[1] R. Graves, La dea Bianca, Adelphi, Milano 1992.

[2] Per il Corpus Hermeticum si fa in questa sede riferimento all’edizione Rizzoli, a cura di Valeria Schiavone (Milano, 2001).

[3] Corpus Hermeticum, op. cit, Capitolo XIII.

[4]  Ibid., Capitolo XVI.

[5] Plutarco, Dialoghi delfici, Adelphi, Milano 1983

[6] Ibid.




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