Il portiere del castello sul mare
La forza dell'abitudine, conto e riconto, ho paura di perderle. Ecco, questa è la chiave lunga del portone, questa è la media del portoncino, la chiave rossa delle stanze del primo piano e quella verde del secondo piano. Ecco, ci sono. Ho messo degli amuleti ad ognuna di loro. Non si sa mai. Inizio il giro. Quando cammino, fanno un rumore di ferraglia nella tasca destra e trascino i piedi come se le gambe fossero di piombo. Non è il peso delle chiavi ma l’umidità che mi è entrata dentro, nelle ossa, passo dopo passo, ad ogni giro notturno. Con la pioggia e il vento che mangia le mura del castello e fa dei grossi buchi sulle porte e nelle mie scapole, negli omeri, nei femori. Il mio scheletro si è assottigliato ad ogni inverno. La furia dell’artrosi ha ancora molta fame, lì sento il frastuono liquido del mare che sbatte dentro il mio sterno. Per ogni buco nelle pareti altissime della parte destra che si apre sull’acqua, fa il nido un uccello. Alcuni li riconosco dal becco. Ogni fessura è un occhio grigio da lontano, invaso da un lungo fruscio di ali. Sono le dieci e un quarto. Per mezzanotte finisco e vado a dormire. Come diceva la buonanima di mia moglie: chi inizia è già a metà dell’opera. Oggi si è fatto buio prima. Le lampare ritornano dal mare. Le luci sembrano farfalle sull’acqua. Chiudo adesso, l'ultimo controllo e poi basta così.
Non c’è nulla da rubare ma per contratto devo fare tre giri e io sono un lavoratore serio, inappuntabile. Come quelli di una volta.
Ogni giorno di mattina e poi nello stacco del pranzo e a ora di cena. Tutto pronto per le visite dei turisti. Così passo il tempo: apro e chiudo le porte.
Il castello è un grande camaleonte di pietra fermo nel golfo. Cambia colore ad ogni ora del giorno e della notte. Le sue torri sembrano le proboscidi di un animale preistorico.
Giallo ocra il corpo immenso, adagiato tra il pontile di attracco delle barche e il mare vasto, lontano il vulcano quasi sopra di lui nella cartolina, azzurro e bianco come un mantello.
Non ci posso pensare, un’intera vita in questo posto, il tempo infinito di un ergastolo.
Qui le finestre hanno delle solide inferriate. Come in carcere. Il cielo viene diviso in quadri scuri, meno scuri. Celesti e rossi.
Non so più come sarebbe la vita senza questa gabbia di tufo e di vento.
Eppure mi piace stare qui, cammino tra questi metri quadrati e sono le persone ad entrare e uscire. A volte escono in fretta, a gruppi, da soli, corrucciati, allegri, frettolosi, vecchi, giovani, bambini, le coppie allacciate strette, le vecchie turiste americane con i cappelli di paglia e i calzettoni, le fila ordinate dei giapponesi, le maestre con le scolaresche, i ragazzi che cercano un muretto per chiacchierare. Li guardo con attenzione, con cura meticolosa, prendo appunti, li conto.
Per loro sono quasi invisibile, una sagoma scura a cui non fanno attenzione, un’ombra.
Mi sento addosso tutti i loro pensieri, le loro malattie. Questo è il mio supplizio.
La mia ossessione. La processione lenta e poi veloce, intermittente oppure confusa di gente che mi scorre accanto, come un vecchio film in bianco e nero.
E’ più forte di me: li guardo, li osservo, li studio, bevo ogni particolare, mi fisso su un dettaglio, fermo un’immagine, un taglio d’occhi, una scollatura, un bel culo, una risata, un dondolio della gamba. Le cose che si portano addosso. Segno con cura anche gli odori.
Tutto ha una voce, una musica che mi danza dentro.
Ascolto le frasi spezzate dai passi, le confidenze sussurrate nelle orecchie, i litigi a labbra strette e poi da solo nella semioscurità della guardiola ricompongo i pezzi, ricostruisco i discorsi e mi faccio migliaia di domande come preso dalla vertigine di un’indagine poliziesca.
Sono alla ricerca della loro emozione più forte e alla fine mi sento addosso sulla pelle, nello stomaco, nelle viscere, quella scintilla che schizza fuori dalla bocca che si storce per la rabbia, da quello sguardo pieno di tenerezza, dalla disperazione e dall’amore tra due amanti abbracciati sotto l’arco del ponte di pietra, dall’indolenza malinconica di qualcuno che guarda il panorama e si strugge come se fosse per l’ultima volta. Afferro quella scintilla anche dal mendicante che si accuccia in un angolo, senza chiedere più niente e nel fondo degli occhi chiama una presenza che non viene, non viene mai. Ogni particella di vita, che sono riuscito a rubare, mi riscalda.
Un’ubriacatura che mi culla dolcemente. Il mio film a occhi aperti non finisce mai. E quando è arrivato il momento, volto le spalle verso l’angolo più scuro della stanza e mi accuccio nella mia smollata brandina e mi addormento. Affondo in un lunghissimo sogno, dove tutti gli indizi raccolti prenderanno corpo. E volo via come un passero dal nido.
Se entra nel castello una donna sola, allora il mio corpo diventa una festa. Una bellissima festa. Sento l’energia che riprende a scorrere fluida dalle caviglie e sale per le gambe, si infila nell’inguine una spada che scorre dentro come un fiume caldo di luce.
Fino alla testa e ogni immagine diventa più lucida, nitida. Il desiderio mi toglie gli anni da dosso.
Raccolgo nella memoria le linee della schiena appena fasciata dagli abiti, la bellezza della bocca e del profilo.
Il portone del pianterreno è enorme, di legno massiccio. Nel centro sono scolpiti due ovali che racchiudono draghi e civette. Lo apro ogni mattina e lo aggancio con le catene al muro e da lì vedo il ponte levatoio che unisce il castello alla strada. Il mare, gli scogli, le barche che si dondolano mollemente nell’acqua.
La mia giornata è questo strano andirivieni di persone e di storie, dove io sono immobile come il centro di un cerchio e sulla circonferenza si muove un mondo di cose e di gente che guardo. Anche di cose, certo, perché ogni uomo che entra nel castello si porta dietro delle cose e queste cose sono scelte non a caso, quindi sono altri indizi che servono per la mia terapia dei sogni. Un ombrello, una borsa, un libro, una valigia stracolma, un cappotto rovinato, una giacca con i baveri lisi, una montatura bislacca di occhiali.
Ogni cosa ha una sua spiegazione per me, la tiro fuori come il prestigiatore il coniglio dal cappello. Mi intriga scommettere anche solo con me stesso il grado di convergenza tra quel determinato uomo e le sue cose, i nodi che li legano stretti. La vicinanza promiscua e ambigua di ogni accostamento. Mi perdo a immaginare le storie che nascondono. Le interne connessioni che ci legano. Poi prendo la scopa e togliendo le foglie secche dalle piante e le matasse di polvere negli angoli delle stanze e riatterro. Disegno cruciverba infiniti con i dettagli raccolti e so che ogni volta uscirà una verità che ci accomuna. Dalla mia postazione la vedo in tutta la sua interezza. E poi svapora in un attimo. E sono costretto a ricominciare daccapo.
Mia moglie lo diceva sempre: tu sei fuori di testa, non combini niente di buono se continui a sognare, scendi con i piedi per terra. Lei era una persona concreta ma la natura non si cambia.
La notte mi agito nel letto prima sfogliando gli elenchi che ho compilato, tutto quello che ho visto durante la giornata, ordino una ad una le loro malattie, ritornano i sintomi che sono tatuati sui loro volti, sento il mio battito cardiaco, cerco di odorare il mio respiro mettendo le mani sulla bocca, sono vivo e sono morto, sospeso in questo posto di passaggio. Non lo so più. Non sto in città e non sono fuori, preso in ostaggio da anni in questo luogo di pietra devastato dai venti, dagli scrosci alti delle onde, dall’erosione delle maree e del sale.
Allo specchio, di mattina, guardo il mio volto: è un paesaggio desolato, pieno di rughe e di affossamenti, accarezzo con le mie mani ruvide ogni macchia della pelle, stropiccio gli occhi, allargo la bocca in una smorfia. Sono ancora io, cambiato certo, ma ancora io, modificato dal tempo che passa come il mio castello, tra terra e cielo. Come me.
Poi rimando la sentenza sulla mia vita al domani e cerco conforto tra le mie coperte. Bisogna vivere. Io voglio vivere con questa presenza inconfessabile che mi gira intorno, la giostra della mia immaginazione. Ho contato gli anni da quando sono qui : trecentosettantacinque.
Fisso il rettangolo di stelle che vedo dalla mia camera, mi calma. La notte nel riquadro del cortile sempre uguale. Mi affido a lei, tocco il ferro della finestra, metto il sale sotto il materasso e mi riaddormento.
La lettura di questo articolo è riservata agli abbonati
ABBONATI SUBITO!
Hai già un abbonamento?
clicca qui per effettuare il login.
Sostienici
Lascia il tuo commento