Il rifiuto di tacere
"Sorella luna" di Gianni Mantovano

Il rifiuto di tacere

diLucio Macchia

1921. Wittgenstein pubblica la sua opera più famosa, il Tractatus logico-philosophicus, breve e densissimo, strutturato in una serie di affermazioni numerate e organizzate gerarchicamente. Con questa pubblicazione si impone come punto di riferimento di quella “svolta linguistica” che caratterizzerà buona parte della filosofia del ‘900, con l’emergere in primo piano dello studio del linguaggio. W. effettua una profonda ricognizione sulla possibilità del linguaggio di esprimere oggettivamente il mondo. Con un approccio kantiano traccia i limiti di tale possibilità e giunge alla conclusione che ciò che si può dire con certezza oggettiva si riduce, sostanzialmente, alle proposizioni della scienza, costruite con la sintassi della logica, verificate con la semantica dell’esperienza. Fine. Ma non proprio. La mente brillante di W. scorge perfettamente che la vita travalica questi confini, li eccede:  «Noi sentiamo che, anche nel caso in cui tutte le possibili domande scientifiche abbiano ricevuto una risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora minimamente toccati. È vero che allora non resta più nessuna domanda; e proprio questa è la risposta» [1]. Vi è un oltre di cui non è lecito né domandare né rispondere e che, secondo W., può solo essere “mostrato”: «L’inesprimibile c’è davvero. Esso si mostra, è il mistico» [2]. Il linguaggio, al di fuori del confine tracciato dalla logica e dalla scienza, è insensato, e non deve essere usato perché «su ciò di cui non si può parlare si deve tacere» [3]. Proprio questa riflessione su ciò che eccede la struttura “razionale” del linguaggio, rende il pensiero di W. qualcosa di più di una concezione rigorosamente disegnata per l’impianto neopositivista della tecnoscienza occidentale. Tanto che lui stesso, nella fase successiva del suo pensiero, tenterà di ampliare e superare i limiti troppo ristretti della codificazione logico-formale del Tractatus. Ma qui non siamo interessati a questo aspetto successivo del suo pensiero. Vogliamo invece rimanere nel solco dell’impostazione del Tractatus. Il linguaggio oggettivo, rigoroso, privo di ambiguità è quello della logica scientifica. Ma rimane la constatazione – ineludibile – che il mondo della vita non è minimamente toccato. Ne consegue quindi – e questo è di notevole interesse –  che tanta costruzione simbolica operi trasgredendo questo limite, attraversando il confine, disobbedendo all’invito di W. a tacere. Lo fa la poesia, nel suo tendersi al “dire la vita” in modo irriferito, indimostrabile, ambiguo. Più un atto di fede, che un discorso. Anzi, nessun discorso, e nessun metodo. «Lo scrivere come forma di preghiera» [4]. Il rischio della parola. E nella medesima condizione viene a trovarsi ogni altra arte, nell’ambito del suo specifico linguaggio. La pittura che non si attiene a “regole” di rappresentazione. La musica che non riposa sulle strutture consolidate di ritornello. In fondo, l’arte fiorisce nella sottesa certezza che nel linguaggio dimori, in qualche modo sconosciuto e inesprimibile, la vita in sé, la voce delle madri [5]. L’essere. Anche molta filosofia novecentesca si è mossa in questa direzione, in una profonda simmetria di intenti. Alcuni esempi, a partire sicuramente da Heidegger, che giunge a cercare nella poesia l’evento dell’essere, nel linguaggio la sua “casa”. E Adorno che, da posizioni completamente diverse, ci dice che «contro Wittgenstein si dovrebbe dire ciò che non può esser detto» [6]. E Derrida che genialmente afferma che di quello di cui non si può parlare non bisogna tacere ma scrivere. E, infine, l'illuminazione di Deleuze e Guattari che inventano un nuovo linguaggio per una filosofia moderna che «tende a elaborare un materiale di pensiero per catturare delle forze non pensabili in quanto tali […]alla maniera di Nietzsche» [7]. E, sullo sfondo, la riflessione di Lacan sul rapporto tra soggetto e linguaggio, nella dimensione della scissione, dell’irriducibilità. Sì, noi sappiamo che, dal punto di vista della logica proposizionale, non possiamo che dire le cose nella loro evidenza empirica, fornita e garantita dal metodo scientifico. Lo sappiamo, ma decidiamo di rischiare un oltrepassamento. Senza garanzie, senza il rigore e la luce delle scienze naturali. Anzi, nella convinzione che questo tipo di sapere, così forte ed efficiente, che domina la nostra civiltà, sorga proprio da uno “strappo” originale (cfr. Zambrano), da una “caduta”, e che nel linguaggio vi siano tracce (cfr. Derrida) ancora recuperabili di una radice perduta. «Buona parte del pensiero novecentesco ha relativizzato la metafisica e l’umanesimo, cercando di risalire a una loro radice rimossa. Questa radice non è un concetto – altrimenti sarebbe metafisicamente inquadrabile – ma […] il contesto di senso che ogni discorso presuppone senza poterlo esprimere» [8]. Potremmo aggiungere “senza poterlo esprimere alla maniera del linguaggio oggettivo formalizzato nel Tractatus di W.” Si tratta quindi di tentare altre e differenti espressioni, che sono dell’ordine “dell’impossibile”. I fronti di oltrepassamento vedono, come già detto, da un lato l’espressione artistica, e dall’altra un certo modo di fare filosofia che spesso intreccia la sua riflessione con le stesse pratiche artistiche. Insomma, i gesti artistici e filosofici che tentano di affondare nel vivo della “carne del mondo”, per usare un’espressione di Merleau-Ponty, sono indomiti rifiuti a tacersi, anche di fronte all’evidenza della mancanza di méthode che garantisca verità, oggettività. Anche dove il lume della ragione non è dato come filigrana definitiva di ogni gesto. Anche nella penombra incerta dell’espressione. D’altra parte, l’idea di una “piena luce” non è che un’illusione che si porta dietro la tragedia della dialettica dell’illuminismo: un rischiaramento accecante nel quale non si vede più nulla che sia della vita. «Eris palpans in meridie» [9]. 

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[1]   L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Feltrinelli (ed. Digitale 2022), 6.52.

[2].    Ibid. 6.522.

[3]     Ibid. 7.

[4]     Kafka, Frammenti da quaderni e fogli sparsi, ripreso da Celan in Microliti.

[5].    Si veda il mio articolo La voce delle madri.

[6]     T. W.  Adorno, Dialettica negativa, Einaudi ed. kindle pos. 576.

[7].   G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, Orthotes 2017, p. 385 (vers. Kindle).

[8].    M. Marchesini , Su Deleuze vent'anni dopo (fonte: claudiogiunta.it).

[9]    Andrai brancolando in pieno giorno”, passaggio biblico (Dt 28, 29) citato da Pascal nei Pensées, sezione 12.


 


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