Inediti di Alessandra Cerminara Tratti da "Il pianto di Eco"
Nella poesia de “Il Pianto di Eco” si sente vibrare il suono inudibile e segreto della vita. Si sentono voci all’apparenza scomparse e perdute, parole che nella loro fragile ed eterna bellezza ci riportano il profumo di esperienze che sembravano irrimediabilmente svanite. Poesia che evoca lontane corrispondenze e ci rivela i luoghi segreti della nostra anima. Luoghi di perdute armonie, di profondi silenzi, abitati da frammentarie memorie, dove il pianto senza lacrime, il pianto di quel che resta del passato continua a scavare dentro le nostre anime stanche. Noi, orfani delle lacrime di Eco, siamo quel che rimane di un sogno senza tempo, dell’antico desiderio dei disadorni paesaggi d’inverno, della musica astrale che continua a vibrare sotto la cenere. Siamo figli di figli mai nati, prigionieri di un bacio che non tornerà più.
Le poesie nate dalla felice mano di Alessandra Cerminara aprono finestre sulle dimensioni segrete dell’anima, sui lati meno esposti della nostra esistenza, sui sentieri abbandonati, che attendono, per tornare a vivere la semplicità luminosa del nostro sguardo. Il ciglio asciutto di Eco è il simbolo di una stagione di progressivo inaridimento umano, simbolo di una lenta desertificazione dell’anima. E le lacrime, le lacrime assenti, le lacrime liberatorie, potranno sgorgare ancora, pulire il nostro viso, solo se sapremo ancora farci attraversare dalla bellezza eterna della poesia.
Odore di sigaretta
Vorrei sognarti
come quando nel buio della stanza
credendomi dormire mi hai baciato,
la notte del mio ventesimo compleanno.
E c’era quell’odore di sigaretta
appena fumata, a me così caro.
O quando, scagliandomi in alto
mi palleggiavi, come Ettore Astianatte bambino,
prima che, salutando il figlio e la sposa,
partisse alla guerra, che lo vide morire
ammantato di gloria perenne sotto le mura
dell’alta Troia. Ma si ritrasse il fanciullo,
atterrito dal cimiero dell’elmo
che orribilmente increspava nell’aria funesta.
E anche tu l’hai combattuta la tua guerra,
senza addii, né lacrime e con quella fredda
composta ironia che naturalmente dimora
sui visi dei forti e lungimiranti. Padre!
com’è dolce la parola, ora che la tua voce
non riempie le stanze, né più essa
giunge inaspettata agli orecchi!
finito il tempo in cui ci raccontavi
Achille e l’ira, portatrice di lutti
Ulisse e le Sirene, tremende e illusorie
Eurialo e Niso e la sacra amicizia.
Nell’orrendo frastuono di un mondo
immolato a un osceno dio postmoderno,
ho indossato i tuoi occhiali, per vedere
lontano. Ho visto bambini giocare
con vario e lieto vocio e il luogo
in cui quieto sedevi, desolato
come il mio cuore.
Ma se qualcosa può questa mia penna,
vivrai per sempre nei suoi versi veraci.
E se neppure così sarà pago il mio animo
ardente, sono certa che un giorno,
alla fine di questo eterno mutare, ti rivedrò
padre. Allora di nuovo ci sarà quell’odore
di sigaretta appena fumata e sorseggiando
il dono di Bacco mi dirai: “Ora siedi,
ascolta mia cara. C’era un uomo,
nobile di petto e di stirpe che reputò
un guadagno il morire. Di lui non resta
che cenere, soffiata via dall’indomabile
caos della storia. Ma il nitido esempio
rimane. La sua gloria s’innalza alle stelle.
Il suo nome è Ettore, dall’elmo ondeggiante.”
Echi di carta
Ho misurato tutte le parole
-echi di carta sotto pioggia fitta-
per dire di un sorriso che si schiude
ad ali larghe e lente di farfalla;
celebrare il tuo volto che fa luce
nel torbido specchiato di me stesso,
tra ombre lunghe e avviluppate trame
i cui contorni sfumano nel vuoto
profondo e denso della solitudine.
Ma nel setaccio a maglie troppo rade
non ne resta nessuna che sia vera.
E come sabbia se ne vanno accenti
vanesi come aria al vento lieve,
senza che nessuno sappia spiegare,
mi sappia dire oltre le parole
in me che sia
quest’anfora di luce che sorprende
le silenziose stanze del mio cuore,
come tenebra che mattino sperde.
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