Inediti di un giovanissimo autore, Elvio Carrieri
Elvio Carrieri, ha diciotto anni e scrive già da qualche anno. Le sue poesie sono apparse su Nazione Indiana, La Repubblica, Dantebus e sono state editate da Aletti editore.
Dichiara: "Ammiro il vostro lavoro e vorrei ridare vita ai miei testi sulla vostra rivista. Sarebbe una bella soddisfazione dalla quale poter ripartire".
Poema sinfonico
o canto dell’odio e del compostato
È il tempo dei margini e sta finendo
Cosi sarà giusto chiedersi
Dove siamo diretti, in quale specchio
Si sfalderà la nostra imitazione
Ma viaggiare
Da limite a illimite è un rischio
Bisogna imparare a star muti nel centro
Dove cadranno gli asfalti
Gli IBAN, i codici di accesso
Che spesso si violentano nella memoria
E va imparata, l’arte del carbonio
L’urlo di una poesia sciolta nell’acido
Il gesto del progresso, il sogno erotico
L’orrendo orgasmo
Impastato nella terra
Va assorbito l’acido odore
Di questo fango pieno di compostato
Su questa terra compressa va scritto
L’imperativo del terrore
Annullare il verso
La memoria della lettera
Bisogna sputare in faccia al raccolto
Come veri malviventi
Con l’incudine dell’unghia
Scheggiare la bussola antica del tempo
Solo così impareremo a invecchiare
Vivere al centro
Non è cosa da poco
Si tratta di lamine, di movimento
Si tratta di cenere che è liscia, silenziosa.
Eῖδος
Su un esemplare di scheletro
Non è disprassìa
Sono i tratti della bocca
Che proprio non mi piacciono
Fanno paura
Quanto un’antica maschera cinese
Sono i muscoli striati
Maledetti, inesistenti
Lavativi corrotti sicuramente
Abominevoli
Che si rendono al cospetto della mente
Non è disprassìa
Non è una colite che mi semplifica
Fosse solo così facile
Dissolversi nella malattia
Non è neanche la gola
Che perderò con la giusta postura
A rendere giustizia
Non sono le anche, il costato
Gli accenni di scabbia
O forse è la signorìa
Di quel ventre colluso e sprezzante
E di quel feudo che chiamo stomaco
Che mi rigo come una bestia
E trasporto come una missiva
A rendere giustizia è la paura
Non è mica disprassia
Questa assurda involuzione
In-volontà di muoversi
Forse è solo lo scheletro
Forse fargli giustizia è impossibile.
Ci ho messo appena tre anni
Ci ho messo appena tre anni
Per farti capire
Che quelli che scrivo non sono ditirambi
Sottesi, o peggio ancora
Poemetti in prosa, o sperimentazioni
Illuminate, contusioni insomma
Di una qualche singolare zona del cervello
Ho tentato addirittura
La mossa del malmenato
Dell’uomo scheletrico
Un Kafka ancora più secco e ancora più magro
Ci ho messo appena tre anni
Per capire e poi dimenticare
Effettivamente cosa fosse un ditirambo
C’era poco da fare in fondo
Oltre che tornarmene da solo a scavare.
A un Bestiario del passato
È facile sorprendersi se a tratti
Anche l’ombra soggiace a un’altra ombra
Tanto diversa quando si compone
Copre per sé, come se fosse il tutto
Come se a un tratto il buco nell’asfalto
Lo scheletro sventrato dell’uccello
Mi ricordassero che sono un uomo
Che sono vivo e anch’io porto uno scheletro
Ed anche lui con me si porta un’ombra.
Dal bianco dei miei occhi calcinati
Li stringo in mano, annodo le falangi
Sciolgo le trecce e il groppo delle vene
Dalla stanca parabola che formo
Sul limite, sul bordo della strada
Fino a dove la calce si costringe
Sento la crepa, il tratto che non bada
A ricongiungersi, la mente che straborda
E non recide, e neanche mi determina
E non occorre il ghigno del coltello
L’amplesso che fa il rame nell’acciaio
Non occorre il silenzio del portone
Altre falangi, altre capigliature
Luoghi migliori, altre nevrastenie
Tutto ciò non occorre per salpare
L’ombra comparirà, si farà netta
Verso una consuetudine che attende
L’ombra che niente vuole e niente prende
Fino a dove la calce si costringe.
Neuköln
La turbolenza scorre sotto i polsi
Allora in ordine
Cedono petto viscere carni
Caviglie accorpate nel decollo
La convinzione
In aria c’è l’odore di una congiura
Dove dorme il dolore
Commisto alle orme
La turbolenza scorre sotto i polsi
Così con eleganza si ripiega al padre
Che faccia la sua volontà
Ma non troppo di getto
Non in modo così barbarico
Qui fuori da me la convinzione
Il tanfo delle biomolecole che brama
Sono pronto a disgiungermi
Dov’è la presunzione
Nel credermi parte di questa creazione sigillata
Il capitano parla in portoghese
In aria c’è l’odore di una congiura
E il vecchio con l’occhio bionico
Ancora non si siede
Chissà che aspetta a farsi volontà
Cosa gli costerà mai arrivar fin qui
Stracciarmi il doppiopetto
Coprirsi il volto sfigurato dalle piaghe
Guardarmi nelle tempie
Aprirsi l’epicardio
E sputarmi nel cuore
E dirmi sono qui per te che tremo
Non così
Non in modo così barbarico
Il padre non può cedere alle mie lusinghe
La mia volontà
deve farsi signora
La mia congiura deve avvelenarmi da sola.
Quasi un Lied
Certo mi guardi
Come farebbe un’avèrla
Sul palo che è il ramo
Dove poi finirei scorticato
Credo fra poco
Dovrei darmela a gambe senza ritegno
A che pro finire poi
Con un rametto in mezzo allo sterno
A mo’ di antica preda
Tu avèrla che mi sanguini
Inumata a sacrificio metropolitano
Certo l’istante
Di me col collo aperto in due
Sopra un’antica quercia
Le mani soppresse
Braccato come un selvatico
Odore di muschio felci sorprese
Sotto di me che muoio
Sopra di me che sanguino
Tu avèrla che mi guardi
Di me non puoi farne che questo.
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