L'abisso della parola
Paul Valéry tiene, nel 1939, una conferenza all’Università di Oxford, dal titolo «Poésie et Pensée abstraite»[1]. In un passaggio della sua lectio, si sofferma sul tema del linguaggio, con alcune profondissime considerazioni. V. osserva che, nei discorsi usuali, l’uso della parola è sostanzialmente inconsapevole. Nella velocità, nello scorrimento incessante delle frasi che caratterizzano il linguaggio corrente, tutto sommato la parola mantiene una stabilità saussuriana: si comporta come segno dell’oggetto, non esposta ad alcuna particolare ambiguità. I problemi sorgono quando in essa ci soffermiamo. V. propone un’immagine molto efficace. Le parole sono come «quelle tavole leggere che si gettano su un fossato, o su un crepaccio di montagna, e che supportano il passaggio dell’uomo con un brusco movimento. Ma che lui attraversa senza pensare, che attraversa senza fermarsi – e, soprattutto, non si diverte a ballare sulla sottile tavola per provarne la resistenza!... Il ponte fragile subito dopo oscilla o si spezza, e tutto se ne va nella profondità»[2]. E aggiunge: «troverete che non capiamo gli altri, e che noi stessi non ci capiamo, se non grazie alla velocità di scorrimento delle parole. Non bisogna insisterci, pena vedere il discorso più chiaro scomporsi in enigmi, in illusioni più o meno dotte»[3]. Il movimento di V. è illuminante: il segno è, in verità, talmente instabile e ambiguo, da non apparirci tale solo per una sorta di effetto stroboscopico indotto dalla velocità con cui ne articoliamo l’uso. Soffermarci sulla parola, spalanca abissi. V. ce lo mostra ancor meglio con un esempio: «so al volo cosa significa la parola “tempo”. Questa parola era assolutamente limpida, precisa, onesta e fedele nel suo servizio, fintanto che giocava la sua parte in un discorso e che era pronunciata da qualcuno che volesse dire qualche cosa. Ma eccola tutta sola, colta in difficoltà. Si vendica. Ci fa credere di avere più sensi che funzioni. Era solo un mezzo, ed eccola divenuta un fine, divenuta oggetto di uno spaventoso desiderio filosofico. Si tramuta in enigma, in abisso, in tormento del pensiero…»[4]. Tutto ciò sospinge allo straniamento d’un paradosso: «è quasi comico il domandarsi cosa significhi esattamente un termine che si utilizza in ciascun istante con piena soddisfazione»[5]. E poiché noi stessi siamo fatti di linguaggio, questo paradosso ci investe in pieno, ci trasporta in una dimensione di Unheimliche (perturbante), in cui la parola è avvertita in modo ambivalente: familiare, rassicurante, nel nostro possesso; ma, allo stesso tempo estranea, minacciosa, inafferrabile. Ecco che ci sentiamo corridori instabili su quelle tavole appoggiate su precipizi. La parola è dunque abisso, e il parlare corrente, con i suoi sottintesi pragmatici, con le sue convenzionalità non approfondite, ne sostiene illusoriamente l’intrinseca inconsistenza. Questa verità giace nascosta al di sotto dei nei nostri discorsi, al fondamento stesso del linguaggio. Naturalmente la cultura della tecnica rimuove questo sprofondamento, e forza la lingua sui codici prescritti dall’univocità della comunicazione intesa come mero scambio di contenuti concettuali. Il poeta fa l’opposto: si affida a quell’abisso, si lascia in esso cadere. Il suo movimento va nella direzione indicata da Heidegger: «Il linguaggio è il linguaggio. Il linguaggio parla. Se ci lasciamo cadere nell’abisso evocato da questa affermazione, non precipitiamo nel vuoto. Cadiamo in un’altezza, la cui altitudine apre una profondità. L’una e l’altra costituiscono lo spazio e la sostanza di un luogo nel quale vorremmo farci di casa per trovare una dimora per l’essenza dell’uomo»[6]. H. muove da una tautologia (il linguaggio è linguaggio) nella quale giace l’irriducibilità del linguaggio stesso a qualunque definizione. Non si può in nessun modo “uscire dal linguaggio” e guardarlo dall’esterno, perché questa stessa operazione sarebbe comunque operazione di pensiero, e quindi di linguaggio. Da questa aporia non si esce, se non lasciandosi cadere nell’abisso che essa stessa spalanca, il quale, però, non ci abbandona al vuoto ma, in qualche modo, ci sostiene. Ci accoglie in una dimora esistenziale. Ci parla. È una voce, non un mero strumento nella nostra disponibilità. Vi è un rapporto, tra uomo e linguaggio, molto complesso: una corrispondenza ineffabile. Nell’abisso scopriamo che il linguaggio, appropriandosi di noi, attraverso noi si fa evento dell’essere, nella forma dell’espressione poetica: «La parola pura del parlare mortale è la parola della poesia»[7]. Un movimento, quello di H., al limite del religioso, nel quale il discorso poetico si fa discorso di senso, occasione di rivelazione, salvezza dal precipizio del nulla. D’altra parte, chi scrive lo sa. La scrittura presuppone un affidamento alla parola, una sorta di fede nel suo potere di istituire un senso nel dominio dell’insensato. Molto prima di Heidegger, la Dickinson lo esprime poeticamente: «Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere». Uno splendore – vien da dire – “abissale”. D’altra parte, non dobbiamo credere che il dono che la parola schiude, si presenti aproblematico: il rapporto con il linguaggio si inscrive sempre in una dimensione contraddittoria, e l’esperienza dell’espressione poetica non potrà mai godere della pacificazione dei discorsi della tecnica. Essa sarà sempre destinata al limine, all’indefinito: a lambire, mai a possedere, l’oggetto a cui irriducibilmente tende.
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1 Poesia e pensiero astratto. Per la stesura di questo articolo, ho potuto attingere dal testo tradotto in italiano contenuto nel libro Necessità di poesia (Spider&Fish, 2020) curato da P. Imperio, che raccoglie una serie di saggi di Valéry.
2 Ibid.
3 Ibid.
4 Ibid.
5 Ibid.
6 Martin Heidegger, Il linguaggio, conferenza del 1950/51 (testo italiano da In cammino verso il linguaggio, Mursia, 2019, a cura di Alberto Caracciolo).
7 Ibid.
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