L'albero e il linguaggio
Foto di Elio Scarciglia

L'albero e il linguaggio

diLucio Macchia

Passeggio nel parco. Alberi intorno a me. Nella luce del crepuscolo si stagliano come presenze dell’ineffabile. L’albero: al suo cospetto si riassume lo sforzo millenario di ogni letteratura. Decifrarne la presenza, dirne la sostanza. L’albero, nella sua semplicità, nella sua ricorrenza, così facilmente perduto nella nostra visione reificante, ridotto a oggetto fra oggetti. Ma lo sguardo teso e autentico, lo sguardo accogliente, scorge in esso la chiamata a dire e, insieme, l’impossibilità di un pronunciamento compiuto. Mi sembrano fondanti le parole di Baudelaire che chiama “felice” colui che «comprend sans effort /Le langage des fleurs et des choses muettes!»1 (comprende senza sforzo il linguaggio dei fiori e delle cose mute). Le cose sono mute, eppure hanno un linguaggio: questo ossimoro racchiude una chiave. Vi è un dire del mondo, un parlare in cui siamo immersi, ma dal quale siamo – al contempo – esclusi, almeno nell’accezione di una pretesa di rapporto diretto, razionalmente riferibile, accertato. Eppure, quel silenzio – al nostro sguardo – può parlare nella forma di una presenza con la quale risuoniamo. Eckart Tolle, maestro di spiritualità, parla di “stillness” delle cose: «Look at a tree, a flower, a plant. Let your awareness rest upon it. How still they are, how deeply rooted in Being. Allow nature to teach you stillness»2. Questa immobilità, questo “mutismo parlante”, ci narra il radicamento delle cose nell’essere. E il nostro stesso radicarci. “Albero”, uno dei primi vocaboli appresi da bambini, ma il segno non riveste che una parvenza del suo ontos. Non afferriamo l’albero, nella misura in cui nulla è afferrabile, tutto ha un “oltre”, come ci insegna Pirandello («C’è un oltre in tutto. Voi non volete o non sapete vederlo»3) e il nostro dire finisce per aprirci, di fronte alla più piccola e semplice delle cose, un abisso. Non vi è mai, nel linguaggio, la possibilità di un appoggio, di una chiusura definitiva. Solo un lasciarci cadere nella sua voragine. Heidegger, nel suo seminario «Il linguaggio»4, proprio muovendo da questa inafferabilità abissale, apre una riflessione spericolata su questo tema. A lui penso, qui, seduto davanti all’albero, promanante la sua presenza cosmica. Dall’albero, l’essere sorge, silenzioso, e in noi risuona, e il nostro presente – autentico – colma. È come una sinfonia muta, capace di un parlare diretto, senza la mediazione dei saperi. È come un destarsi delle cose, mostrarsi in essenza. Heidegger parla di «suono della quiete». Di nuovo un ossimoro, almeno apparente, che crea un legame profondissimo e disvelante con i versi di Baudelaire. Un suono della quiete, in questo consiste il linguaggio che, aggiunge il filosofo, «non è nulla di umano». È piuttosto l’eterna chiamata delle cose a offrire il mondo. Come un canto dell’universo. Qui la riflessione si infittisce in una trama che assume un tono religioso, nel senso proprio, di un legame tra le componenti del mondo. Che s’inscrivono in un “quadrato”: mortali, divini, cielo e terra. «I quattro costituiscono, nel loro relazionarsi, un’unità originaria. Le cose trattengono presso di sé il quadrato dei quattro. In questo adunare e trattenere consiste l’esser cosa delle cose. Queste, nel loro essere e operare come cose dispiegano il mondo […]»5. È tutto enormemente complesso, ove portato sul piano argomentante, ma, di fronte all’albero, diviene semplice. I pittori lo hanno sempre saputo: protesi a cogliere un segreto sfuggente, imprendibile. L’albero di Leonardo che assume in sé la natura, l’albero di Cézanne che mostra la risonanza nel colore, l’albero di Mondrian che si destruttura all’essenza nell’astrazione geometrica. Comunque, un interrogare ostinato, proteso. Mettersi in relazione con le “cose mute”. Il nostro parlare – in quanto uomini – è il nostro risuonare del suono della quiete. È un cor-rispondergli e, al tempo stesso, un ri-evocarlo. Di fronte all’albero, di fronte al mondo, «l’attenzione è la preghiera spontanea dell’anima» (Malebranche, citato da Celan6) e ancora ritorna un movimento religiosamente “re-ligante”. Ai piedi dell’albero sembra deposto ogni destino umano, ogni tentativo, ogni parola. Riconoscere il “suono della quiete” ci restituisce al nostro essere più proprio. Ci rende parlanti. Dove il parlare non è semplice strumento comunicativo, ma nostra stessa essenza. Siamo il parlato del nostro essere. Del nostro stare al mondo. E «la parola pura del parlare mortale è la parola della poesia»7. Il poetare che, al di là delle miriadi di scelte stilistiche possibili, conserva il denominatore comune di questa “attenzione” al mondo. La poesia, dunque, come parlare per eccellenza, non in virtù di un’astratta gerarchia di espressione, ma perché in essa il dire è un risuonare, in qualche modo “puro”, liberato da altri intenti. Ora qui, seduto, scrivo del mio albero, di come sia sospeso nella luce della sera, di come mi consegni a me stesso, alla mia dimora di parole, tese a una chiamata rilkiana verso essenze tanto vicine quanto remote. Heidegger è illuminante: «Chiamare è chiamare presso. E tuttavia quel che è chiamato non resta sottratto alla lontananza, nella quale proprio quel cenno di chiamata di lontano fa che permanga. Il chiamare è sempre un chiamare presso e lontano; presso: alla presenza; lontano: all’assenza»8. Siamo creature del limine. Possiamo ritrarci completamente “al di qua delle cose”, sordi al loro richiamo, e così negarle, dimenticarle, e vivere nella tecnica che tutto reifica, che organizza e spiega, che anestetizza. È la via dei molti. Alcuni osano sognare di collocarsi “al di là” di quella linea, ma lì saremmo completamente confusi, in balia dell’abisso, di una dimensione non umana, insostenibile (riecheggia Rilke «Chi se io gridassi mi udirebbe mai / dalle schiere degli angeli ed anche / se uno di loro al cuore / mi prendesse, io verrei meno per la sua più forte / presenza»9). I poeti si trattengono “all’orizzonte degli eventi”. Questo, per primo, li fa poeti, non l’atto dello scrivere, ma il trattenersi al limite, e lì resistere. In un dolore autentico, che è il sentire la «connessura dello strappo»10 tra cose e mondo, e il loro reciproco acquietarsi. E lì tentare ancora il dire risonante che adduce – parlando – il potere di rammendare. Dove ogni argomentare appare insufficiente, e l’affidarsi al linguaggio, ineludibile.

 



1Charles Baudelaire, Élévation da Les Fleurs du mal (1857)

2 Dal web goodreads.com

3 Luigi Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, 1925

4 Martin Heidegger, Il linguaggio, conferenza del 1950/51 (testo italiano da In cammino verso il linguaggio, Mursia, 2019, a cura di Alberto Caracciolo)

5 Ibid.

6 Paul Celan, Il meridiano, dal volume La verità della poesia, Einaudi, 2008, a cura di Giuseppe Bevilacqua

7 Heidegger, ibid.

8 Ibid.

9 Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi, 1923 (testo italiano edizione Feltrinelli, 2006, a cura di Michele Ranchetti)

10 Heidegger, ibid.

 

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