L'istrice della poesia
Nel numero di gennaio-febbraio 1990 della rivista filosofica «Aut aut» uscì un articolo di Jacques Derrida dal titolo «Che cos’è la poesia?»i, con la traduzione di Maurizio Ferraris, il quale contestualmente intervistò Derrida in merito a tale articolo. La conversazione fu inclusa anch’essa nella rivista con il titolo «Ick bünn all hier». Il contributo di Derrida, la sua risposta alla “domanda impossibile” sul poetico, si articola in un breve testo che, naturalmente, si guarda bene dal dare una definizione diretta della poesia, ma sceglie invece di evocarla mediante una prosa essa stessa meta-poetica che ricorda, nel suo movimento cripticamente alogico e allusivo, il testo de «Il meridiano» di Celanii, che Derrida sicuramente aveva ben presente (lo definì «grande e maestoso testo»iii). Genialmente, la mente di D. concepisce, per dire il poetico, l’immagine simbolico-allusiva dell’istrice: «animale gettato in strada, assoluto, solitario, chiuso a riccio su di sé»,iv fornendo così una rappresentazione potente del gesto poetico nella sua precarietà, nel suo rischio e irriferibilità. Un gesto che viene compiuto – sostiene D. proprio all’inizio dell’articolo – rinunciando alla cultura ma senza perderla e quindi «attraversando la strada» con una «dotta ignoranza». Il tentativo poetico attraversa la strada dei grandi discorsi, rischia a ogni passo di esserne schiacciato, proprio per il suo atteggiamento di chiusura, di raccoglimento. Di alterità. Torna il concetto celaniano di un dire poetico che si espone, si articola precariamente. È persa la fiducia nella possibilità di un pronunciamento che heideggerianamente comporti un porsi-in-opera-della-verità. Né l’istrice derridiano ha la pretesa di assumere la potenza espressiva “ologrammatica” del frammento di scrittura nella concezione di Schlegel («Come una piccola opera d’arte, un frammento deve essere totalmente staccato dal mondo circostante, e chiuso su se stesso come un istrice»v) pur sposandone la natura ellittica poiché il poema è per D. intrinsecamente breve, qualunque ne sia «l’estensione oggettiva o apparente». Ogni cosa, qui, si profila fragile, instabile, rischiosa. Al centro di tutto D. pone un luogo comune del poetico: il cuore. Ma il movimento compiuto dal filosofo è spiazzante. Non “cuore” in quanto sentimento o intuito o rivelazione: «non il cuore che pulsa nelle frasi traducibili senza rischio in ogni lingua». “Cuore” assunto, invece, nel senso di “imparare a memoria” (in francese “apprendre par coeur”) del «dettato» poetico. La poesia acquisisce il connotato di un dire che viene dettato per essere appreso a memoria: il suo senso sembra riporsi nel corporeo tessuto testuale stesso che si affida alla possibilità – totalmente irriferita – di giungere all’altro perché lo apprenda a memoria, direttamente, senza mediazioni. Con le parole di Derrida: «qualcuno ti scrive: scrive a te, di te, su di te. […] Mangia, bevi, inghiotti la mia lettera, portala, trasportala in te, come legge di una scrittura che si è fatta tuo corpo: la scrittura in sé». Una esperienza di transustanziazione lirica, l’evento «di lasciarti attraversare il cuore dal dettato» in una dimensione che precede la parola, poiché «il nostro poema non sta nei nomi e nemmeno nelle parole». È quella entità preverbale che, pur reclamando la parola, al contempo vi resiste, in bilico tra raccoglimento e attraversamento, come l’istrice chiuso in sé, esposto all’autostrada, sospeso tra immobilità e movimento. Il canto poetico presenta sempre una «irriducibilità»vi, un «carattere non semantico, non sostituibile»vii, un residuo incoglibile dal discorso, ricevibile solo nel “par coeur”. Ma se di questo si tratta, questa articolazione del gesto poetico non può che cercare l’unicità originale dell’evento del dire, non può che rifiutare qualunque “tecnicizzazione” dell’atto espressivo. Unicità significa «incendiare la biblioteca delle poetiche», «commemorare l’amnesia, la primitività, persino la bestialità del “par coeur”» e accettare la follia – dell’istrice – nell’esposizione all’incidente che deriva proprio dall’appallottolarsi di fronte al pericolo, dal ripiegarsi su un dettato originale a fronte della pervasività dei discorsi. Qui il movimento di D. si fa incisivo. La sua ingiunzione è “anti-produttiva” e “anti-letteraria”: «poiché il poema ha luogo – in ciò che gli è essenziale – senza che lo si debba fare». E ancora, genialmente: «non lasciare che l’istrice sia convogliato nel circo o nel maneggio della poiesis», «il dono del poeta non cita nulla […] non istriona più […] taglia corto con la poesia discorsiva, e soprattutto letteraria […] l’istrice sommesso bassissimo, vicino alla terra». Né intrattenimento né didascalia per questo istrice. Solo l’evento unico del darsi, oltre i discorsi strutturati, oltre i saperi: «il suo evento interrompe sempre, o svia, il sapere assoluto, l’essere presso di sé nell’autotelia. Questo “demone del cuore” non è mai uguale a se stesso […] si espone alla sorte». È la prospettiva che D. designa con il nome di «poematico», ad indicare un poetico che si presenta – rispetto all’orizzonte heideggeriano – nel segno costante dell’indefinitezza e precarietà: «nessuna costruzione, nessun fare, nessuna poiesis oltrepassa la possibilità del fraintendimento»viii. Se la poesia è evenienza unica, dettato da imparare a memoria, e quindi “anti-discorso”, qui il ruolo dell’io si indebolisce, anzi quasi scompare. Non è l’io del poeta a firmare il poema, non su di esso si incentra il gesto, ma piuttosto nel suo ritrarsi. Possiamo dire che l’io poetico si ritrae come l’istrice, e dialoga con l’altro (altro in sé e altro da sé) attraverso un tessuto testuale che nell’altro si sostanzia: «Un poème je ne le signe jamais [un poema io non lo firmo mai – l’io non firma mai un poema]. L’altro firma. L’io appare solo con il desiderio di imparare a memoria». È la definitiva decostruzione dell’io poetico creatore. L’io non firma mai un poema. Di converso, potremmo dire, si profila l’insensatezza di quei poemi che insistono nella “firma”, che – dimenticando l’umiltà dell’istrice – assumono la superbia delle narrazioni “forti”. Certo, è una tentazione a cui la lirica è costantemente sottoposta nel dominio del discorso della tecnica: il miraggio di un mettersi in salvo definitivo, di un sottrarsi alle aporie dei tentativi poetici, dai rischi connessi, dalla solitudine e dal dolore. Dove invece, e Derrida ce lo ricorda ancora «non c’è poema senza incidente, non c’è poema che non si apra come una ferita, ma anche che non c’è poema che non ferisca». Ricordiamolo sempre. Ricordiamoci dell’istrice.
i L’articolo fu pubblicato la prima volta sulla rivista Poesia nel 1988 (dall’articolo di Roberto Diodato, Due riflessioni sulla poesia, fonte web)
ii A questo scritto di Celan ho dedicato due articoli: Lungo il meridiano, parte I e parte II
iii La citazione è tratta dall’articolo La presenza della poesia di A. Valtolina (fonte web)
iv J. Derrida Che cos’è la poesia? Questa citazione e tutte le successive tra virgolette caporali sono da quel testo, salvo dove indicato diversamente
v Citazione di Schlegel tratta dalla conversazione Ick bünn all hier tra Ferraris e Derrida
vi Da Ick bünn all hier
vii Ibid.
viii Articolo di Roberto Diodato sopra citato
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