La beneficenza
Era un sabato di fine marzo, una giornata luminosa. Le acacie erano in fiore, un albero troneggiava proprio di fronte a casa di Ada disseminato di palline soffici e gialle, come se sopra vi fossero nevicate piume di canarino.
La chioma sbucava da un muretto di mattoni rossi di argilla e si espandeva rigogliosa, la fioritura conquistava all’albero il ruolo di protagonista del giardino e quasi ne fosse consapevole, quello stormiva dolcemente, come in un sussurro di compiacimento, pareva dire “Guardatemi come sono bello!”. Ada lo guardava ammirata, sorridendo di sé stessa per il pensiero appena avuto di umanizzazione di un vegetale, ben sapendo che la natura è così: bella di per sé e non soffre di vanità.
Ada era serena, l’attendeva presto un’occasione di festa per la quale aveva già tutto organizzato. Il figlio Riccardo avrebbe ricevuto la cresima. Così irrequieto il suo Riccardo che non le sembrava fosse vero avesse già tredici anni. Il corpo del ragazzo aveva messo sulle ossa la provvista di peso per lo sviluppo della pubertà, quando i maschi crescono così rapidamente che se stanno fuori casa appena un po’ più del solito, al ritorno a casa, in piedi davanti alla porta d’ingresso, sembra che la occupino tutta in altezza, oppure se prendono una malattia da raffreddamento da curare con antipiretico e riposo quando si alzano dal letto guariti, sembra abbiano preso in tre giorni dieci centimetri. Riccardo sarebbe stato uno splendido giovane, come suo padre Michele. Michele non era solo alto, ben più di Ada ch’era piccoletta e biondina con grandi occhi castani, ma anche burbero, come un orso, incuteva negli estranei timore con la sola presenza fisica e lo sguardo pungente dei suoi incredibili occhi azzurro-cielo, ma era, nonostante le apparenze, un uomo di grande bontà. Capelli scuri e ondulati, barba e baffi, gambe forti e larghe spalle era in sostanza la roccia di casa, tanto quanto Ada sembrava un fuscello pronta a volare via col vento. Un contrasto d’aspetto tra i coniugi singolare, ma piacevole. Completava la famiglia Veronica, la figlia maggiore. Diciotto anni, snella, lunghi capelli lisci castani e splendidi occhi verde azzurri. Un sorriso delizioso che si apriva su denti bianchissimi e una carnagione chiara che aveva la sorprendente capacità di abbronzarsi senza scottarsi anche quando Veronica restava a lungo al sole. Ada aveva una solida formazione religiosa, più profonda che osservante, e aveva cercato di formare i suoi figli allo stesso credo. Entrambi i suoi ragazzi erano svegli ma ben educati, non tanto nel praticare i precetti cristiani formali, ma più radicalmente nel senso di dare con la propria vita e le proprie opere sempre testimonianza della propria fede improntata all’amore per il prossimo. Certo questo li metteva un po’ in difficoltà. A volte non era facile vivere il nucleo del dettato evangelico: “ama il prossimo tuo come te stesso” in una società malata di vizi e debolezze della quale era specchio persino la scuola. Ne vedevano di cose sbagliate i ragazzi, comportamenti arroganti, incivili, persino delinquenziali. Perciò dovevano sapersi gestire, adoperarsi in positivo mascherando un po’ le intenzioni, così da raggiungere lo scopo senza dare nell’occhio. Del resto bastavano piccoli tocchi per orientare gli eventi verso un esito giusto, ispirato alla bontà, rispetto degli altri e tolleranza della diversità.
Diverso l’approccio di Riccardo rispetto a Veronica nell’operare secondo gli insegnamenti familiari. Riccardo più contestatario, usava la dialettica per affermare il suo pensiero, l’arma che sfoderava più di frequente era la persuasione. Aveva il dono di saper parlare e di ascoltare, perdeva anche ore con un interlocutore, amico o nemico che fosse, per illustrare il suo punto di vista, controbattere alle tesi, sentire cosa l’altro sostenesse di intelligente o meno, portarlo verso la propria posizione. Era anche un pensatore, sviluppava idee e le esponeva nel discorso, strutturato per esemplificazioni per convincere l’altro. Nonostante fosse un adolescente metteva nelle cose che diceva una serietà sorprendente. Non che fosse diverso da piccolo, anzi, proprio questo atteggiamento così concentrato e interessato a interagire già dalla prima infanzia, aveva messo più volte a disagio Ada quando si rapportavano con altri, medico, insegnante o commessa che fossero. Nel senso che li approcciava, come se fosse un adulto. Ada non vedeva l’ora che diventasse grande perché comportamento e fisico fossero allineati e l’accettazione sociale di tanto serio ragionare e interloquire apparissero più naturali in un volto con la barba, in un corpo di statura più elevata. Veronica era più concreta, meno rivolta alla dialettica e più per i fatti, come quando dileggiavano un suo amico, Lucio, con il buffo soprannome di “Polpetta”. Che poi questa “ingiuria”, non aveva niente a che vedere col povero Lucio, gliel’avevano affibbiata così, per prenderlo per il naso, per non annoiarsi, perché nelle maglie di un discorso era caduta questa parola e al più vanesio del gruppo era venuto in mente di appellarlo così. Da quel momento fu un tormentone inestinguibile. Quando il gruppo di compagni lo bullizzava chiamandolo in coro o a ripetizione con questo appellativo, Veronica interveniva con l’azione che si fa con i cani, quando abbaiano a perdifiato contro qualcuno che sembra lo vogliano sbranare. Occorre interporsi, escludere il contatto visivo oppure inventarsi qualcosa che distragga l’animale. Veronica s’inventava una chiamata del preside per quello che rideva più forte, una telefonata della mamma di Lucio per cui lui doveva subito allontanarsi. Veronica aveva un carisma e una disinvoltura nell’imbastire questi piccoli inganni che l’aiutavano parecchio nel distrarre l’attenzione del branco e fortunatamente quelli del gruppo non erano ragazzi cattivi o delinquenti, solo un poco annoiati che si divertivano col dileggio. Non educati alla gentilezza, ma vittime anche loro di una perversione sempre più diffusa e malevola che è sfruttare la posizione di forza di un’aggregazione umana orientandola a gesti non benevoli verso una vittima designata. Comportamenti che sono esito di un miscuglio di input dove troneggiano emulazione e incapacità di solidarietà e di empatia.
Insomma Ada con i suoi ragazzi aveva fatto proprio un buon lavoro, bisogna dirlo, anche se faticoso, come ogni cosa che dà buoni frutti non viene per caso, ma con impegno, tentennamenti, superamento di ostacoli, dedizione. Non diversamente da un campo di grano che richiede d’essere arato, seminato, raccolto. Non diversamente da un giardino di agrumi che vuole l’acqua, altrimenti non fruttifica oppure si dissecca. L’acqua erano le parole, il convincimento di cosa fosse il bene e cosa il male, l’allenamento a distinguerlo in ogni situazione, tanto vera e concreta, ad esempio una notizia riferita dal cronista al notiziario, tanto inventata come in uno sceneggiato o un film che vedessero e commentassero insieme. Si parlava in famiglia e ci si confrontava, avveniva così, senza ammaestramenti eclatanti, per l’importanza del confronto e dell’esempio, il trasferimento dei valori, di umanità e rettitudine, ancora di più esprimendo critiche alla società nei suoi punti deboli più evidenti o mettendo in guardia i figli dai rischi e pericoli che potevano degenerare.
Da qualche tempo Ada pensava che fosse giunto il momento di compiere un passo più concreto nel senso della generosità, voleva dare la disponibilità per l’affido di un minore oppure darsi da fare nella parrocchia per opere di carità. Pensò bene di confidarsi con padre Carlo per averne un consiglio. Padre Carlo era il parroco di Santa Maria del Cristo in Croce, la chiesa dove si sarebbe cresimato a breve Riccardo. L’incontro preparatorio dei genitori alla cresima era fissato alle 17 di quel giorno, si teneva proprio in chiesa. Santa Maria del Cristo in Croce, era chiamata così per uno splendido Crocifisso, forse del Cimabue, posto all’altare maggiore.
Ada, al termine dell’incontro, si recò in sagrestia e bussò alla porta della stanza di padre Carlo.
“Buonasera Padre, le volevo parlare. “
Padre Carlo era in piedi e in piedi restò, non la invitò ad accomodarsi. Era già in procinto di uscire chiamato dai doveri del suo ministero, però le rispose disponibile “Certo Veronica, mi dica pure, anche se giusto adesso non ho molto tempo”
Ada riprese “Ecco, Padre, io le volevo chiedere consiglio. Ho uno scrupolo che mi inquieta. Mi sono chiesta se faccio abbastanza per la comunità. Se vivo pienamente il mio essere cristiana. Vorrei poter fare di più. Ad esempio avevo pensato di dare la disponibilità per un affido oppure impegnarmi qui in parrocchia con le opere di carità. Cosa posso fare? Che mi consiglia?”
Padre Carlo la guardò tacendo, mentre gli venivano in mente una marea di pensieri che in onde che si sovrapponevano l’una all’altra rapidamente. Pensava a tutte le signore più attive che si premuravano alle opere di bene presso la sua parrocchia, Luisa, così maniaca del controllo e autoritaria, Marta, pettegola e lamentosa, Gianna, polemica e ottusa e le altre e gli altri della congrega, perché c’erano pure gli uomini. Tutti per la parrocchia, ma tutti portatori di contrasti e problematiche che più che risolvere complicavano. Alcuni degli assidui frequentatori della Chiesta erano ipocriti, cioè soltanto desiderosi del prestigio e del potere, che gli derivavano dall’essere ben inseriti nell’ambiente parrocchiale, altri proprio in quell’ambiente volevano prevalere, indisponendo coloro che certo in un ambiente di spiritualità e fede non accoglievano volentieri di essere in qualche modo sottoposti, altri altolocati in società, si spendevano con un’altezzosità tutt’altro che caritatevole, tutti comunque volevano per sé qualcosa. Per tutti padre Michele era una sorta di panacea dei mali, a lui si appellavano, era l’uomo da chiamare sempre in causa, gli stavano addosso come spilli su un puntaspilli. E pensando a quanto tutti quelli che bazzicavano la parrocchia con l’intento di servire la Chiesa lo esasperassero più che aiutarlo, padre Michele pensò che fosse un basto sufficiente per le sue povere ossa, mentre doveva impegnarsi quotidianamente nelle opere del suo ministero sacerdotale: messe, confessioni, sacramenti, funerali. Ma non fu tanto questo a suggerirgli una risposta per Ada in attesa davanti a lui. Gli vennero in mente flash di madri che conosceva afflitte, infelici o sfortunate. Cosa affligge una madre se non le pene che i figli imbastiscono come una ragnatela di dolore, dove le povere donne restano avviluppate? C’era Renata, dalla quale padre Carlo stava per andare, gravemente malata; si poteva dire che la stava uccidendo proprio la figlia, Ilenia, drogata. Poi pensò a Lucia, ragazza madre, ripudiata dalla famiglia, prossima a dare in adozione la sua piccola, appena partorita, perché non si sentiva in grado di sostenere da sola il peso di crescerla, dovendo anche lavorare. E pensò ad Adele infine, il cui figlio, motivando a sua madre il gesto con le parole “O io o lui, mamma”, aveva ucciso un uomo ed era in galera.
Ada cominciava a sentirsi a disagio per il lungo silenzio di padre Carlo. Egli taceva con gli occhi scuri e fissi puntati sul volto della donna e il suo viso, sebbene in ombra, sembrava composto e inespressivo.
Dopo quel momento di riflessione, padre Carlo si riscosse, e annuendo, come se stesse accogliendo la disponibilità di Ada, in realtà la respinse dicendo “Cara Ada, mi creda, resti a casa a curare la sua famiglia, a crescere i suoi figli. Questa è l’opera più caritatevole che possa compiere una madre.”
Poi si scusò dicendo che doveva scappare a somministrare un’unzione degli infermi e la lasciò. Ada non seppe che pensare. Ebbe il dubbio che forse anche per fare beneficenza ci volesse una raccomandazione. Tornando a casa rifletteva che il suo intento benefico aveva fatto un viaggio di breve durata, come il suo nome da che da “a” finiva in “a”, nel breve spazio di una sola consonante. Lo pensava spesso delle sue sortite rapide, più o meno riuscite, con buona dose di autoironia.
Tornata a casa dimenticò l’episodio. Si lasciò di nuovo prendere dalle cose della vita. Fare la madre, tra l’altro, nel migliore dei modi, senza sapere che così, formando giovani improntati ai valori spirituali ed umani, lei portava a compimento l’opera di bene più grande possibile, la missione di vita che le era stata affidata. Ada la conduceva con semplicità e naturalezza, quasi inconsapevolmente. Non si rendeva conto che proprio così contribuiva a migliorare il mondo.
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