La porta sulla luna. Dove si portano i sogni
«L’impossibilità a trovare il proprio passo crea infelicità»
C. Candiani
Cinzia Caputo, psicanalista junghiana e poeta, ci offre un altro scrigno prezioso di poesia.
“La porta sulla luna. Dove si portano i sogni” è una silloge poetica che predilige il frammento quasi epigrammatico. Le scelte lessicali e il campo semantico di eccellenza di questa ulteriore ricerca di Caputo affondano con grande densità espressiva nel mondo dell’inconscio, sede del sogno, svelando e nascondendo una selva infinita di simboli che afferiscono alla dimensione arcaica e ancestrale. Il femminile sacro è più volte annunciato, nella sua doppia accezione di cura, accoglienza, sofferenza e trasformazione alchemica. La poesia è fonte di trasformazione e di individuazione psichica, segna il confine tra ragione e follia.
Ascolta la voce (Cassandra è di pietra). Conferma che delirio è verità. Che il silenzio ha due facce. Che l’essere dice ciò che non dice e non dicendo dice. Cassandra è interdetta, mai creduta anche se dice che il sole tramonta.
Analisi psicologica, meditazione trascendentale e immersione profonda negli archetipi producono una messe feconda, che trova la sua misura nel verso breve, scagliato come una freccia verso l’obiettivo. Ogni parola è dosata con cura, diventa portale di conoscenza sensibile e intima. Ciò che viene detto ha la densità della profezia che scava e prende dal “pozzo” le immagini/segni. Nel silenzio, la donna si trasforma in sibilla e trova il suo canto, la sua nota particolare e incancellabile.
La voce diventa oracolo, fertile di visionaria percezione interiore.
Ad occhi chiusi /Ho camminato nuda/ Ho scavato con unghie/ Fino ad un pozzo chiuso (un’inferriata con un forte lucchetto sulla bocca) / Trovai la chiave, riposta/ In una tasca del vestito./ Ad occhi aperti, nuda, tornai al pozzo/ ma non riuscii ad aprire (la serratura era cambiata)
Il pozzo sepolto dei poeti ermetici fa riferimento all’urgenza lirica di immergersi nel proprio mondo interiore, per recuperare nella parte più profonda tutto quel materiale con cui forgiare il verso, nutrito di illuminazioni filosofiche e esistenziali. Si cerca la giusta strategia tra ombra e luce, tra le varie parti di sé spesso, in conflitto seguito da faticosa risoluzione. Ma la parola “pozzo” indica anche la tomba, quel genere di sepoltura etrusca, che scende nel terreno per una decina di metri, per poi giungere a una grande camera aperta su tanti cunicoli diretti agli ambienti, dove erano adagiati i defunti. E infatti alcune pagine sembrano proprio provenire da questo dialogo in versi con una dimensione ultraterrena.
Attraverso il frammento poetico, nel silenzio di una riflessione con il trascendente e l’impermanente, l’autrice tenta di sciogliere quei nodi problematici legati al passato.
La porta, la soglia e la luna, parole che indicano il passaggio tra la vita e la morte, tra coloro che sono qui e quelli che vivono altrove, oltre il Velo. E in questo colloquio interiore si sviluppa l’incanto di una connessione creaturale profonda.
Nella notte di novilunio/ Sola, una voce può perdersi nella luna./ La porta era notte socchiusa /Solo, uno spicchio di luna /Accedevi alla mia stanza sulla soglia /solo un'ombra (fuggiva un gatto, solo) plenilunio.
Ogni segmento poetico rimanda al seguente in una danza notturna, creando un’atmosfera onirica, suggestiva e ipnotica. La riflessione esistenziale offre delle pause, dove la conversazione interiore cerca un interlocutore che risulta assente. Il tema dell’amore e della nostalgia ritornano spesso ma ne consegue anche un altro sotto traccia, tema della maturità e del dono: la capacità nella solitudine di individuare il proprio baricentro spirituale. La poesia diventa scrittura che si libera del tempo e dello spazio, in una dimensione dove il femminile trova la sua autonomia e la sua sacralità, nell’abbraccio cosmico. Diventare dea, incoronarsi regina come condizione umana di liberazione e ancoraggio personale in un tempo feroce, fatto di inquietudine e di precarietà.
La poesia è in ascolto del mondo, prova a decifrare l’indecifrabile.
L’acqua, il fiume il gatto. Ho visto penzolare un albero dalla sua coda.
Il corpo della donna diventa lo spazio per una rigenerazione poetica, spazio prima abbandonato e ferito che tocca e attraversa altri corpi nella danza e nella battaglia. Lo sguardo della donna ribalta ogni significato, si appropria del lessico patriarcale e lo rivoluziona per ritrovarsi nella sua interezza. Si interroga per scardinare ogni stereotipo.
Sono vuota/ sono come l’oracolo di Delfi pronta a ricevere/ Il Dio Serpente parola Inganno Fuoco che ingoia Fuoco dalla gola aperta/ volano parole come farfalle nel tronco monco /Suono cavo pervade le viscere affonda profondo come Dio /Feconda
La donna non si propone come vaso vuoto che accoglie, ma come soglia tra il corpo e la mente che vive e si espone in una zona liminale. Non fugge da se stessa ma affonda le mani nel significato delle parole, moltiplica gli orizzonti e apre un varco. Nell’immaginario collettivo la donna può essere un corpo oggettivato, perduto in un territorio dominato dalla logica maschile. Nella ricerca poetica di Cinzia Caputo, la donna si libera dai lacci, diventa corpo che cammina tracciando altre connessioni con un Arcano femminile assolutamente recuperato, visualizzato e vitalizzato, riformulato nelle sue coordinate esistenziali.
La poesia diventa così azione politica di riappropriazione simbolica della propria voce.
Nell’attesa che mi ricrescano le mani/ Io uso le tue ali.
Cinzia Caputo crea un percorso di autoguarigione attraverso la parola poetica, un attraversamento fantasmatico che, dal passato saccheggiato dagli incubi e dalle paure, giunge fino alla scintilla luminosa del verso. La parola è medicamento, lei ne è a conoscenza. Psicanalisi e poesia hanno questo minimo comune denominatore: il racconto simbolico del sogno. La scrittura si serve del racconto per costruire architetture legate da intrecci magmatici di insight e così la conversazione terapeutica utilizza con ugual forza la parola, per rivedere ogni storia autobiografica sotto una lente di ingrandimento capace di rompere il copione nevrotico del danno.
Amavo in lui l’assassino: mi eccitava non sapere quando mi avrebbe uccisa. Devo a lui l’esistenza e testimonio che mi fu presente. Amavo tutti i no che stridevano sulla pelle mentre gridavano Si più alti.
La parte finale della silloge è dedicata a omaggiare con dei versi Emily Dickinson, Giacomo Leopardi e Alda Merini. Tre nomi uniti dalla sofferenza e dalla malattia. La citazione del “muro degli Angeli” , parete dove Alda proiettava i suoi incubi e l’incandescenza della sua scrittura, diventa emblematica chiave di lettura di questa breve genealogia poetica che chiude quest’ opera così piena di significato e di bellezza.
Scrive per vivere e vive se scrive. É talpa nutrita da radici di sillabe. Trascina nel suo scavo meteore di visioni, brandelli d’origine. Non fare facendo, rovesciare il già detto. Così le parole sollevano il tempo e, nella malattia, lo squarquoio si fa poesia.
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