La scrittura del nuovo romanzo di Floriana Coppola
Quando si affronta la scrittura di Floriana Coppola, quella poetica e/o del nuovo romanzo come amo definirlo, bisogna soppesare le parole e costringerle per forza di cosa in un nuovo paradigma scritturale. Già si notano nelle ultime opere poetiche un inframezzamento di narrazione quasi epistolare e un vero e proprio scat jazzistico, in ogni caso frammentato come schegge fonematiche di una forza straordinaria che ricordano, a mio vedere ovvio, il meglio della poesia femminile dell’ ultimo Novecento, e mi riferisco a Patrizia Cavalli, Patrizia Vicinelli e non da ultima Amelia Rosselli. Nomi forti e coraggiosi che fanno della metrica pura spazialità. Dunque un lavoro enorme di genere e sul genere, che a mio parere pochi fanno in Italia, poeti di genere e non di genere. L’unico poeta che aveva questa dote, questo talento a mia memoria aveva un nome molto molto significativo, Pasolini e con lui qualcosa del meglio di Nanni Balestrini. La scrittura poetica e la scrittura in generale di Floriana Coppola si situa tra un radicale mutamento di forme linguistiche, niente affatto melliflue ma dure e crude come se fosse interamente ‘metropolitane’ alla Diane di Prima, tanto per intenderci e squarci di umanità serialmente riprodotte, diremmo fortemente esistenziali e mi riferisco proprio all’esistenzialismo filosofico. E così bisogna intenderle quelle strofe narrative nell’ultimo romanzo di Floriana Coppola edito da Terra d’ulivi edizioni, ‘La bambina, il carro e la stella’. Una sequenza a più registri di una narrazione molteplice, fatta di una sintassi che sfiora la radicalità di ribadire un codice, quello della trama, e parallelamente una serie di annotazioni diaristiche, monologhi personali, racconto puro e collages di informazioni sul contesto in merito ad una storia di una bambina Rom Marika che deve, quasi costretta, esplorare un mondo che in qualche modo non le appartiene, quella del ghetto di una periferia metropolitana, tra ostilità preconcette e necessità del vivere alla soglia dell’impossibile in un quartiere di per sé difficile. Tra robe vecchie e non riciclabili. Chi frequenta o ha frequentato le periferie deve fare i conti con le storie martoriate ed estreme, in cui il proletariato urbano è stato confinato e dentro questo ghetto urbano un ghetto dentro il ghetto, lo spazio risicato ed insicuro dei Rom. Ostilità del potere, del senso comune, degli stessi emarginati che viene faticosamente ricucito da eroi metropolitani delle tante, tantissime associazioni di volontariato, che fanno da contrappeso ad una narrazione spesso stucchevole e voyeristica, dei vari romanzi filmici alla Gomorra tanto per intenderci. E qui purtroppo non si salva nessuno. Tranne lo sguardo materno e letterario di chi si pone di fronte al dramma di una vita impossibile.’Accattone’,’Mamma Roma’ di Pierpaolo Pasolini sono a tutt’oggi gli antipodi estremi di questo discorso ‘Sul Potere e sulla Marginalità’ che così come affrontata dall’autrice, ha una matrice somigliante all’ inchiesta filosofica di Michel Foucault e nella forma, nella forma del romanzo, nella struttura architettonica del romanzo, ai Mille piani di Deleuze e Guattari, ove il rizoma, le radici consentono alla ‘trama’ di percorrere la storia di Marika, della sua famiglia, di un popolo, di una cultura, di multiculturalità che si addensano come mille faglie di un mondo che lotta per sopravvivere alla sopraffazione e all’abbandono. E, poi, come se non bastasse, un diario personale che dal mio punto di vista è la cosa più preziosa del romanzo, che si fa fatica a chiamare romanzo, in quanto lo è e non lo è, se non andiamo a quel new romance della nouvelle vague francese degli anni sessanta che coglie nell’impersonale i mille frammenti di umane citazioni. Alla Robbe-Grillet tanto per capirci. Ma per non forzare troppo su questa sponda, questa volta bisogna leggere il romanzo come un accademico accadere alla maniera di Anna Maria Ortese(la qualità più sottile) e nella sponda più alta alla scrittura enorme di Simone de Beauvoir (la qualità più meditata). E’ nell’impersonale partecipato poi che io riconduco ad una matrice ulteriore, ‘metacognitiva’, questa scrittura, femminile e filosofica insieme, che ha un solo riscontro a mio vedere, Simone Weil. Il miglior commento lo affido alle parole dell’autrice:
‘il cuore rallenta la testa cammina
In quel pozzo di piscio e cemento
a quel campo strappato dal vento
a forza di essere vento…’
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