La violenza che arriva col sorriso
Tutti colpevoli: Martin Scorsese, “Killers of the Flower Moon”.
Tre ore e trenta che passano come un soffio. Non abbiate paura, non vi annoierete neanche per un istante. E godrete di un’opera geniale, ricchissima di spunti per riflettere sul passato ma anche, e molto, sul nostro presente. Che arricchisce e illumina. Questo è il film del grande Martin Scorsese, uscito da circa un mese nelle sale. Tratto dall’acclamato saggio del giornalista americano David Grann, “Gli assassini della terra rossa” (2017), dove si racconta di un’agghiacciante cospirazione ai danni di una nazione abitata dai pellerossa. Ma il regista va oltre. Perché il suo film nasce dopo l’emergenza sanitaria globale, e di certo non la ignora. Vediamo.
“Ho voluto raccontare quanto sia facile lasciare cambiare le cose in modo terribile senza opporre la minima resistenza” (Martin Scorsese)
Negli anni Venti gli indiani Osage dell’Oklahoma diventano i più ricchi d’America e, forse, del mondo, grazie agli enormi giacimenti petroliferi scoperti nel sottosuolo delle riserve da loro abitate. Fanno prestissimo ad assimilare i modelli e gli stili di vita proposti dal sistema capitalistico creato dai bianchi. Straordinarie le scene iniziali del film: dalla terra schizza fuori il petrolio e imbratta gli indigeni, che saltano e danzano, in preda all’esaltazione. Questo nuovo dio merita nuovi rituali, presto verranno a conoscenza del valore e significato dell’oro nero, e prenderanno consapevolezza che i proprietari della terra da cui fuoriesce sono proprio loro.
Poco dopo assistiamo a scene di vita quotidiana in una città della periferia americana, dove indigeni riccamente abbigliati sfoggiano belle automobili e abitano residenze lussuose. Queste, assieme agli abbigliamenti e alle capigliature, li rendono “scimmiottature” dei bianchi, nel frattempo diventati loro autisti e inservienti. Il mondo si è ribaltato, la minoranza emarginata, grazie al ruolo primario assunto dal mercato degli idrocarburi, è adesso qui ceto dominante, che ha rinunciato in massima parte alle proprie tradizioni, ai propri riti, alla propria identità culturale e religiosa. Un velo di malinconia ricoprirà sempre i loro sguardi, come se inconsciamente sapessero di avere perso l’anima, e Scorsese mi fa venire i brividi per come sa descrivere e comunicare a noi questa loro condizione. D’altra parte, prendere o lasciare. Imitare il modello dominante o rimanere ai margini, completamente esautorati.
Molti capi tribù vorrebbero opporsi a questa rinuncia, in un certo senso sacrilega, ma il popolo degli indiani Osage è facilmente manipolabile e instradato dai bianchi, che neanche per un attimo hanno pensato di cedere realmente il loro potere. Strane morti si verificano tra i membri della comunità indigena, maschi e femmine, soprattutto giovani, in circostanze inquietanti, a cui non viene dato risalto dalla stampa. Chi vuole fare maggiore chiarezza sulla faccenda, finisce allo stesso modo. Ad un certo punto, però, i morti diventano troppi, il governo non può ignorarli, deve almeno fingere di interessarsene. Incarica un agente dell’FBI (nel film, l’attore Jesse Plemons), che ingenuamente prende molto sul serio il suo compito, dotandosi di un gruppo di investigatori anche di origine indiana.
Scorsese adatta la vicenda reale, rimanendo fedele all’agghiacciante piano dei bianchi di liberazione dei territori dell’oro nero dagli occupanti indigeni. Concentra l’attenzione sul terribile destino delle donne indiane ricche, che, succubi del fascino su di loro esercitato dagli uomini bianchi, un tempo padroni, e delle decisioni famigliari, sono indotte dai coniugi ad ammalarsi di diabete, malattia a cui sono predisposte costituzionalmente, e poco a poco ‘avvelenate’ dalle attenzioni ipocrite, quasi sempre criminali, dei mariti. Il complotto è ordito dal potente allevatore William Hale (Robert De Niro) che, con mente di diabolico stratega, ordisce e pianifica il dissolversi delle famiglie indiane proprietarie terriere, impadronendosi indirettamente dei loro beni. Col ghigno penetrante e ambiguo di De Niro, si finge grande amico, protettore e strenuo difensore dei loro diritti, delle loro vite.
Sotto le sue grinfie finisce il nipote Ernest Burkhart (Leonardo Di Caprio), unico personaggio non presente nel libro ma introdotto dal regista. L’ uomo è reduce della prima guerra mondiale, durante la quale si è assuefatto ad ogni orrore. Crede che, tornato nei luoghi d’origine, potrà trovare condizioni ideali per arricchirsi e costruire una vita degna di essere vissuta, secondo i canoni che lo zio William cerca immediatamente di trasmettergli. E ci riesce, poiché Ernest appartiene a quella diffusa categoria di persone che non hanno le idee chiare sui valori della vita e che, da sempre, sono disponibili a lasciarsi irretire, manipolare, condurre. Così finirà per sposare una ricca donna Osage, Molly, magistralmente interpretata dalla bella e intensa Lily Gladstone.
Ernest ama molto Molly, ma non saprà tirarsi indietro quando si tratterà di compiere azioni che potrebbero, essendo lei malata di diabete, anziché curarla ucciderla, come già capitato a tante altre Osage prima di lei.
Non toglierò al potenziale spettatore la sorpresa e il piacere di assistere alle numerose incredibili immagini che Scorsese ha saputo creare, alle infinite suggestioni ed emozioni che suscitano, anticipandone la descrizione. Tuttavia mi sento di dire che in questo straordinario ritratto della società americana e del suo elevato livello di corruzione e disumanità, il regista non ha certo soltanto voluto onorare, come era sacrosanto, gli indiani Osage, per le cui morti MAI fu fatta giustizia, ma tutte le minoranze etniche, politiche, di pensiero, che il sistema occidentale neoliberista, asservito agli States, da sempre ha perseguitato e cercato di annientare, in nome di profitti inesauribili dei potentati economici, oggi costituiti dalle multinazionali delle armi ,dei farmaci, delle tecnologie informatiche.
La malattia di Molly
La descrizione della malattia di Molly e delle ‘dosi’ di morte che le vengono iniettate dal marito, che pure afferma e crede di amarla, sono sconvolgenti per intensità, verità, attualità. Scorsese fa scorrere a lungo davanti a noi, ripetutamente, queste immagini, le illumina con perturbanti primi e primissimi piani, ce le fa entrare nell’anima, diventare un enorme interrogativo. E intanto fuori, nei campi, tutto brucia, in un inferno che si diffonde, che prende la forma annebbiata, pulsante, della nostra RINUNCIA, talvolta anche inconsapevole, A DIFENDERE IL VALORE DI OGNI SINGOLO ESSERE UMANO, di ogni vita.
Ernest capisce di avere cercato di uccidere l’amatissima moglie solo quando Molly, salvata grazie all’intervento dell’FBI, gli chiede: “Ma tu sapevi cosa mi stavi iniettando?”. Non c’è risposta. Solo uno sguardo di sgomento.
La spinta ad obbedire ad un potere criminale e manipolatore è più forte dell’amore, è più forte persino dell’evidenza, dettata dalla ragione. Può essere più forte di tutto, se permettiamo che lo sia. La responsabilità di non avere approfondito, di non avere voluto veramente sapere, è tutta nostra, suggerisce il regista.
Grazie Martin Scorsese di essere quel grande maestro che sei e di avere impiegato il tuo genio per affrontare proprio questo tema, il più attuale che possa esserci. Grazie per la straordinaria sceneggiatura, le immagini indimenticabili, la volontà di coinvolgere noi spettatori in una profonda riflessione critica. In cui, più di sempre, metti la tua firma indelebile.
Grazie a Leonardo Di Caprio, che è stato tra i primi a volere questo film e che dà un’interpretazione pregnante, appassionata, indimenticabile. Grazie al sempre grandissimo Robert De Niro, alla magnifica Lily Gladstone, al bravo Jesse Plemons, e a tutti gli altri splendidi attori di quest’opera, così necessaria
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