La voce degli scarti
Negli attraversamenti dei territori del poetico, incontriamo alcune idee – gigantesche, folgoranti – di Theodor W. Adorno. Già in un precedente articolo[i] ho menzionato «Dialettica dell’illuminismo»[ii], con riferimento alla tesi del dominio costituito della ragione che, con il suo trionfo nel mondo occidentale, ne decreta, al contempo, l’affermazione e lo smarrimento. Nella perfezione di una formula scientifica possiamo scorgere questa realtà bifronte. Da una parte la capacità di comprendere i fenomeni, scriverne le leggi e abilitare, quindi, la manipolazione della realtà. Dall’altra il trionfo, in questa prassi, del “pensiero identificante” (come Adorno lo designa nella sua opera «Dialettica negativa») «cioè la spinta a “definire” le cose, a “determinarle”, a “fissarle” in un significato univoco»[iii] e, quindi, a possederle, chiuderle nel dominio della ragione, escludendone tutti gli aspetti non aderenti al concetto. Il pensiero identificante imprime, non esprime: «non lascia le cose nella loro naturale differenza, nella loro spontanea variabilità, ma le costringe a esser una sola cosa. Invece che “esprimere” il mondo, esso “imprime” su di esso la propria logica»[iv]. Il concetto, la parola piombano sul mondo con una violenza modellante, che ne annulla la voce più flebile e nascosta. Il diktat del concetto azzittisce le cose. In questo movimento riduzionistico, il pensiero, al fine di espellere il caos dionisiaco del mondo, e compiere la sua cristallizzazione apollinea, esclude ciò che non è conforme all’identità, ciò che, nel rapporto con la realtà, si presenta sfuggente, inafferrabile. Il pensiero identificante «produce scarti»[v]. E cosa scarta? Scarta ciò che è intrattenibile dal concetto, ciò che è “aconcettuale”. Più liricamente, potremmo dire che scarta l’elemento vitale, nella sua dimensione più propriamente umana. Il pensiero occidentale ha voluto dare un nome definitivo alla cosa, richiuderla stabilmente nel concetto: su questa operazione si è costruita la nostra civiltà tecnico-scientifica. E, a questo altare, è stato sacrificato l’umano. La pretesa di dire “il tutto” ha un connotato sacrilego, come attestato dalla tradizione ebraica dell’aniconismo. Il divieto di farsi immagine di Dio e del mondo sottende la consapevolezza della ferita irrimediabile apportata da questa operazione. In «Dialettica dell’illuminismo» vi è la rilettura di tale divieto, come monito al “silenzio sulle cose”, a un silenzio che consenta di salvarle: «in ciò è implicita l’idea che ogni denominazione positiva del vero sia già con ciò falsa»[vi]. Qui si radica il poetico, dove si ravveda l’insopprimibile esigenza di una parola diversa, una parola al contempo piena e remota, che non imprima il concetto sulla cosa, ma ad essa si accosti con un gesto di mimesi e di risonanza. Che non chiuda la cosa nella definizione ma, aprendosi ad essa, la lasci ex-primere. In questa prospettiva, il poetare assume il senso di un conferimento di voce agli “scarti”. Dove il poeta è lo “scartato” del mondo della tecnica. Troviamo ulteriori irrorazioni di senso nelle splendide idee estetiche di Adorno, che vede nell’arte proprio il tentativo di recuperare ciò che non viene (che non può esser) detto. Tentativo attuato mediante un’operazione complessa, ambivalente, contraddittoria. Una vera e propria «utopia come luogo dell’assenza, di ciò che dovrebbe essere e non è»[vii] (utopia che ci rimanda all’ultima parte del Meridiano di Celan) in cui il gesto artistico – collocato nel “non luogo” – non può che inscriversi nella dimensione dello straniamento, proprio per sfuggire alle logiche identificanti, per non essere – esso stesso – reificato, come di fatto continuamente avviene nelle manifestazioni di arte derubricata a istanza puramente positiva: prodotto, contenuto, messaggio, dichiarazione. La società del pensiero identificante attenta continuamente alla vita dell’arte, che vive costantemente alla soglia del suo annientamento, della sua assimilazione. Ecco perché l’arte (e, quindi, la poesia) dei nostri tempi non può che essere oscura: «l’arte non si esaurisce in ciò che rappresenta, ma, nel suo intimo, vi è un di più, un qualcosa di indefinibile […] L’arte è opaca a se stessa e si spinge al di là di ogni intenzione cosciente verso un fondo che le è oscuro»[viii]. Costantemente ammantata da questa oscurità traverso cui, solo a tratti, in modalità inafferrabili, l’altrove traspare, «l’arte deve lottare contro l’inerzia di un linguaggio che si creda “naturale” mentre è solo asservito alla routine, contro una comunicazione dilagante, che non è più in grado di comunicare alcunché […]. Il linguaggio è asservito all’universo dei mass-media: bisogna scuoterlo, forzarlo, fargli violenza. Le avanguardie storiche, dalle cui pulsioni impregnate di messianismo sociale Adorno ha, per altro, preso le distanze, hanno avuto il merito di far cadere l’accento sulla necessità di disarticolare il linguaggio. L’arte deve porsi contro una comunicazione universale la cui falsa chiarezza rende inafferrabili le cose»[ix]. Ritroviamo così, ancora una volta, le articolazioni fondamentali dei nostri discorsi sulla lirica: la tensione verso il sovvertimento del linguaggio, che abiliti un disvelamento, in una dimensione sempre complessa e irriferibile, in cui il movimento centrale è la rivolta all’azione omologante della tecnica che – riducendo – scarta, sottoponendo costantemente l’essere alla violenza reificante. Ancora, e sempre, Rilke riecheggia: «A me piace sentire le cose cantare. / Voi le toccate: diventano rigide e mute. / Voi mi uccidete le cose»[x].
[i] L’articolo in questione è «Infondabilità del gesto poetico»
[ii] Opera scritta a quattro mani con Max Horkheimer
[iii] Dall’articolo (fonte web) di Lucio Cortella «Salvare l’individuo. Compito e oggetto della teoria critica in Adorno», Quaderni di Teoria Sociale n. 1-2 del 2020
[iv] Ibid.
[v] Dal video (fonte Youtube) di Vincenzo Rosito «Theodor W. Adorno, Dialettica negativa»
[vi] Dall’articolo (fonte web) di Antonio Raggi «(In)naturalità della ragione. La critica della ragione nella “Dialettica dell’illuminismo” di Horkheimer e Adorno».
[vii] Dall’articolo (fonte web) di Tito Perlini: «Il velo nero. Riflessioni sull’ultima produzione estetica di Adorno»
[viii] Ibid.
[ix] Ibid.
[x] Traduzione di Anna Maria Carpi
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