Lungo il meridiano (seconda parte)
Continuiamo il nostro peregrinare estivo lungo il meridiano poetico di Celan. Un “diario di viaggio” di personalissime note di lettura, a margine del mio sentire. Non un’esegesi, non uno studio comparativo, ma un incontro. Un cammino errante. Di risonanze.
Un movimento, ancora, nella scena del Lenz dissertante d’arte. Büchner lo coglie in un raro momento di felicità. Essere immersi nell’arte – ne deduce Celan – ci distacca dall’io. Ci porta a una «lontananza», esige un «cammino». Lo stesso Lenz, all’inizio del racconto, sogna di camminare sulla sua testa, di ribaltare il senso cosmico dell’essere. Celan chiosa in modo geniale: «Chi cammina sulla testa […] ha il cielo come abisso sotto di sé». Eppure, Lenz non trova la sua “anti-parola”: egli è la buia ombra di Celan, come è evidenziato dalla questione “delle date”.
Lenz, nell’incipit del racconto, si mette in cammino il 20 Gennaio. Questa data è tragicamente inscritta nella vicenda dell’olocausto (la data in cui fu decisa la “soluzione finale” nel 1942) e quindi nella vicenda personale di Celan, la cui vita fu piagata irrimediabilmente. La perdita dei genitori, la prigionia, il suo stesso equilibrio mentale, che risuona con la follia di Lenz. Il poema, ci dice Celan, «non smarrisce il senso di tali date, eppure – parla». La poesia prende parola al cospetto della ferita, ne è (viene da dire pensando a Lacan) il velo intessuto su di essa. Lenz è l’onnipresente tentazione dello “ammutolimento”, del cedimento definitivo all’insensato. Tra “anti-parola” e “non-parola” sembra svolgersi il cammino della poesia, la sua ricerca di una «svolta del respiro». E la sua inevitabile «oscurità». Celan ne esce con una spallata, con un gesto: «il poema parla, vivaddio!». Il poema parla, dal fondo della sua ferita, nella rarefazione di una direzione incerta, tra i fantasmi del mutismo. Parla nell’ombra. Irriducibilmente, parla. Questa la dimensione celaniana dell’espressione.
La poesia parla – parla in «prima persona» – anche per conto di «un Altro», di un «tutt’Altro», e – parlando – si protende verso un Altro, tenta un raggiungimento. Qui, in modo complesso, si intersecano due piani dell’alterità: interpersonale (l’altro come destinatario del “messaggio nella bottiglia”, per usare un’immagine che Celan tratteggia in altro scritto) e intrapersonale (l’altro come alterità del poeta stesso, altrove dell’essere). Un ex-primere che è sempre ricerca di un luogo altro, a cui, pronunciando il “tu”, il poeta si riferisce. Celan avverte tutta la problematicità di questo ragionamento, e la sua prosa si fa ancor più sfuggente, oscura, suggestiva.
La poesia moderna, osserva più avanti, si va – in tale complessità – destrutturando. Nel lessico aspecifico, nella sintassi decostruita, nella tensione alle forme ellittiche. Ancora incombe la «inclinazione ad ammutolire» di fronte alla quale il poema – e qui Celan ci folgora di nuovo – «si afferma al margine di se stesso», tra «ormai-non-più» e «pur-sempre». Ormai non è più possibile battere certe strade espressive: la violenza storica ha agito sui linguaggi piagandoli. Eppure, sempre - anche “nel tempo della miseria”, viene da dire – noi tentiamo. Pur-sempre tentiamo. Siamo spinti oltre la volontà del nostro io. Ecceduti a dire.
Questa dimensione del “pur-sempre” è di estrema precarietà: il poeta tenta il colloquio con “l’Altro”, si protende con una attenzione che Celan accosta (citando Benjamin) a un atto di preghiera. E al centro di tutto questo non vi è la costante ricerca della perfezione formale, dell’artefatto perfetto, che anzi sembra sfumare in secondo piano. «È piuttosto un concentraci avendo ben presenti le nostre date». Le nostre date. Le ferite individuali e quelle storiche. L’ontogenesi e la filogenesi del dolore.
Qui Celan approfondisce il tema del colloquio – un «colloquio disperato» – della poesia con le cose del mondo. Rivolgersi all’altrove delle cose nel qui e ora - per sentirne il tempo come mistero perpetuo di provenienza e destinazione, approdare a un luogo aperto che mai fornisce la risposta definitiva. In questo passaggio ci regala uno dei punti più alti, riconoscendo, nella tensione poetica, in ogni poema, questa «inaudita pretesa» di cogliere l’Altro dell’essere, e questo «ineludibile problema» di non giungere mai a chiusura. Questa diade pretesa/problema si configura come il cerchio vitruviano nel quale l’espressione poetica inscrive il suo ontos. In una luce di destino individuale che Celan illumina così: «sotto l’angolo d’incidenza della sua propria esistenza, della sua condizione creaturale […] linguaggio, diventato figura, di un singolo individuo».
In questa intrinseca problematicità, pure Celan illumina un senso, al di là dei rischi di pervenire, con tutte le creazioni, semplicemente «ad absurdum». E il senso ritrovato è quello di uno sfociare, tendendosi oltre se stessi all’incontro con una «distanza o estraneità» che è la dimensione dell’arte, ma in una chiave che supera il discorso della finzione e dell’artefatto («qui il volto di Medusa si atrofizza, qui fanno cilecca gli automi»), per sfociare a qualcos’altro. Possiamo forse dire ad una dimensione di libertà che la parola abilita. Un “oltre-arte”. Un “tornare sempre a casa”. «Una sorta di rimpatrio» genialmente illumina Celan, con una cifra utopica e in un tono che, in questa parte della prosa si fa nettamente intimista. Il discorso di Celan qui “si espone” (per usare un’altra sua famosa formula sul poetico), si fa testimonianza di una ricerca personale, di un approdo a se stesso. Da qui si snoda il discorso conclusivo.
L’immagine finale tratteggia l’uomo-Celan che consulta mappe geografiche, che cerca impossibili topos per questi luoghi u-topici. E cercando l’impossibile, trova il poetico. E, con un movimento improvviso, magico, emerge l’immagine del meridiano che è come la lingua «immateriale […] terrestre, planetario […] circolare». La circolarità che simboleggia il suo stesso procedere in questa prosa, che torna irrimediabilmente su se stessa, che non trova una sequenzialità argomentativa, un punto di arrivo. Se non – forse – nell’accadimento, nell’evento espressivo. Un discorso profondo e coraggioso, in cui Celan accoglie tutta la precarietà del parlare e – comunque – parla. Un eterno ritorno del dire che ci riporta a noi stessi, ancora e ancora. Nell’inaggirabilità del gesto poetico. Nell’infinità dell’istante.
NOTA:
tutte le parti tra virgolette caporali, salvo ove specificato, sono citazioni de “Il Meridiano”.
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