Mariella Mehr, l'urlo che squarcia il silenzio
Ci sono storie che sembrano incredibili, storie che a conoscerle ci suscitano un sussulto, una momentanea sospensione del respiro e ci lasciano increduli e sbigottiti, storie che continuano a camminare attraverso il tempo e lo spazio, in spazi e tempi che crederemmo temprati e ammaestrati dalla storia e dalla civiltà. Ma non è così. Un esempio di quanto possa essere distorto il percorso umano nel tempo ci viene dalla vicenda umana di Mariella Mehr (1947-2022). Dalla vicenda umana legata alla sua infanzia e alla sua giovinezza, perché poi, per fortuna, il vento ha virato, per lei e per quelli come lei, catalogati, disprezzati. E anche estinti. Mariella è di etnia jenisch, cioè nomade, cioè al di fuori dei canoni in cui la civilissima Svizzera include le persone normali, le persone per bene. Perché essere nomadi significava a quel tempo avere una tara ereditaria, essere inclini alla criminalità. Così sosteneva il dottor Alfred Siegfried che nel 1926 crea un progetto a tutela dei bambini di strada, Kinder der Landstrasse, incluso in un più ampio disegno a favore dell’infanzia abbandonata, la Pro Juventute. A dire il vero il dottor Siegfried non inventa niente di nuovo, semplicemente si incunea tra quelle teorie di pensiero che hanno attraversato tutta la storia umana, diventano più incisive a fine ottocento fino a sfociare in ideologie perverse i cui effetti ben conosciamo. Perché gli zingari non hanno mai smesso di suscitare perplessità, fastidio, sospetto. Da qui all’eliminazione il passo è stato breve, e anche ampio, conducendo ai campi di sterminio e alla morte migliaia di zingari, e nel contempo facendo permanere, nell’Europa uscita materialmente e moralmente distrutta dalla guerra, il concetto che gli zingari vanno rieducati per essere assimilati alla cultura dominante. Ed è su questo orientamento di giudizio che si inserisce la vicenda di Mariella Mehr. Come tanti altri bambini, Mariella viene sottratta alla madre e consegnata a famiglie affidatarie, istituti psichiatrici, collegi. Conosce la brutalità, la violenza, la cattiveria umana al massimo grado. Ha un figlio che le viene strappato, viene sterilizzata, come, prima di lei, sua madre, sua nonna, tante altre donne. La gratuita crudeltà subita lascerà in Mariella un segno permanente, eppure lei, tra “gli espulsi dal mondo”, sarà capace di nutrire in cuor suo “un lupo”, una forza disperata di attaccamento alla vita, che la porterà a denunciare un sistema di sopraffazione tanto orribile quanto disumano e a far cessare un perverso gioco di annientamento fisico e psichico. Ridotta al silenzio, Mariella comincerà a scrivere appena decenne facendo esplodere una voce prepotente attraverso la scrittura che la porterà a comporre romanzi, opere teatrali e raccolte di poesie, a fare di lei una delle voci più significative del novecento, a trovare nella parola il veicolo del riscatto della sua esistenza frantumata, l’affermazione di sé, a ribadire quello che Heidegger affermava, cioè che la lingua, e la parola poetica, è “la dimora dell’essere” che rende possibile l’epifania di ciò che era stato taciuto e urge nel più profondo dell’anima. L’urgenza di ribaltare un’esistenza al limite del sopportabile (Quanto dolore può sopportare un essere umano? si chiede Anna Ruchat nella postfazione alla raccolta San Colombano e attese di M. Mehr) trova spazio soprattutto nella poesia, una poesia dilaniata, come se le parole recassero in loro la lacerazione dell’anima e i versi volessero far emergere un dolore troppo a lungo soffocato, un dolore che esplode nella pagina generando versi duri dove aleggia un’oscurità permanente. “Siamo separati di fronte al mondo/ognuno incatenato alla sua ora” “Carne/ in cui nessun canto soffia la vita”, “Spesso canta il lupo nel mio sangue/e allora l’anima mia si apre”, “Nessun sogno cadde dal firmamento/solo pietra nera/urlai nel sonno”.
L’anima si apre e denuncia, e al contempo trova un modo per riequilibrare un’esistenza difficile comunque da ricomporre. Come quella, sia pure con aspetti diversi e propri, di Alda Merini, di Maria Fuxa. Perché solo le parole possono dare risarcimento e, se non guarire, almeno lenire, perché la poesia è “un atto di pace”, sosteneva Neruda, perché “la poesia è àncora di salvezza dall’abisso del passato” affermava il critico letterario Peter Hamm, perché “quando ti accorgi di avere ben poca voce per urlare e distruggere le spesse mura della sofferenza, l’unica cosa che ti resta da fare per sopraffare la mostruosa ombra della solitudine e dell’incomprensione è aggrapparti. Io mi sono aggrappata alla poesia” diceva Maria Fuxa, sentendosene salvata.
E così ha detto Mariella Mehr: ”E raccolsi le pietre/le gettai nel paesaggio non nato/del mattino/un mendicante inciampò/le sollevò/nelle sue mani divennero oro”.
La poesia come affermazione, benedizione, divinizzazione dell’esistenza quindi, per quanto cupa possa essere stata. “Alle volte è dentro di noi qualcosa (che tu sai bene perché è la poesia) qualcosa di buio in cui si fa luminosa la vita: un pianto interno gonfio di asciutte, pure lacrime”. (Pier Paolo Pasolini).
La lettura di questo articolo è riservata agli abbonati
ABBONATI SUBITO!
Hai già un abbonamento?
clicca qui per effettuare il login.
Sostienici
Lascia il tuo commento