Memorie di uno sceneggiatore
Paolo Menduni, Napoli è

Memorie di uno sceneggiatore

diAngelica Fei Barberini

Quando suona il telefono di casa ormai ci avviamo rassegnati all’apparecchio con la risposta già pronta: “No, grazie non mi interessa…buon lavoro”. Quel giorno invece la voce dell’altro capo del filo era diversa, vivace, giovane, con un’ombra di timidezza; disse di essere un professore dell’Università d Cassino, stava preparando un libro sulle trasposizioni TV dei romanzi vittoriani, aveva visto il mio nome come sceneggiatore de “La donna in bianco”, un lavoro andato in onda nel remoto 1980, e trovato il mio numero sulle pagine bianche.

Era stata Giovannella Gaipa, donna intelligente, originale e dalla cultura senza fondo a propormi il progetto, avevo accettato subito con entusiasmo questo romanzo inglese del 1860, “The woman in white” di Wilkie Collins, all’epoca sconosciuto nel nostro paese, avremmo pubblicato poi noi per Garzanti la versione italiana. Raccontava di due fanciulle identiche, una bella e ingenua, l’altra folle e sciupata; di due cattivi, uno inglese e l’altro italiano (“È troppo intelligente per essere inglese” sentenziò l’autore); di un segreto inconfessabile e, come tutti i romanzi di quel tempo, ruotava intorno a due temi: amore e denaro. Quando uscì, pubblicato a dispense, ebbe un successo clamoroso: il fascino del racconto, i caratteri ben disegnati, le atmosfere, i paesaggi, la suspence lo fecero amare dal pubblico di ogni tipo, dal carrettiere al primo ministro Gladstone, che una sera mise una scusa e restò a casa a leggere l’ultima puntata saltando una prima all’opera. Giovannella e io ci mettemmo all’opera. Lavoravamo molto, fumavamo troppo, ridevamo spesso. Una volta diviso il trattamento in scene, le tiravamo a sorte, non scrivevamo mai i dialoghi insieme, ce li scambiavamo dopo. E sognavamo: ville e castelli e corse a cavallo, insomma lo immaginavamo un film girato in esterni. Il ritorno alla realtà fu brusco, bisognava registrarlo negli studi di Milano, tutto in interni. Allora il regista, Mario Morini, persona colta, fine, capovolse il gioco e dichiarò apertamente la finzione, gli scenari dipinti, la teatralità del tutto, puntò sulla recitazione di un gruppo di attori di prima qualità, a cominciare da Micaela Esdra ad Anna Maria Gherardi, Paolo Bonacelli, Lino Troisi, Caterina Boratto, Lou Castel, Donatella Ceccarello, Marina Berti... Il risultato furono quattro puntate, arricchite dalle musiche originali di Pino Massara, che, se all’epoca risultarono troppo intellettuali, forse hanno superato bene il passaggio di tanti anni proprio per questo: ma potrete giudicarlo meglio voi, se ne avete voglia il programma è su YouTube.


Il punto di vista che Saverio Tomaiuolo, Professore associato di lingua inglese presso l’Università di Cassino e del Lazio Meridionale, mi stava esponendo al telefono mi parve subito interessante. Se il romanzo è sempre lo stesso, ogni epoca e ogni cultura (il libro riguarda anche Gran Bretagna e Stati Uniti) lo legge e lo traduce per la Tv e per il cinema in maniera differente, rispecchiandovi i problemi, i temi del momento; non a caso Angelica Fei Barberini - che ha intervistato il professore a Foggia, sua città natale - ha voluto intitolare il pezzo “Lo sguardo riflesso”

 Rivedere i vecchi gloriosi sceneggiati RAI, non solo con gli occhi della nostalgia, non solo per ammirarne l’eccellente fattura ma anche per rileggere da un’angolazione inedita la nostra storia recente, dal terrorismo ai manicomi, dal femminismo alla violenza sui bambini.

Passai dunque al professore tutte le informazioni che potevo, ricordavo bene quel lavoro anche se di quaranta anni prima. Pubblicato il libro, il professore ha voluto invitarmi nella sua Università e presentarmi a colleghi e studenti (stupiti di non trovarsi di fronte un vegliardo con bastone e barba fluente?) per un bellissimo incontro; nessuno però ha osato chiedere, per timidezza o diplomazia: “Perché tanto Ottocento? Perché interessarsi ancora a lavori di tanto tempo fa?”. Se lo avesse fatto gli avrei risposto leggendo queste righe di un critico letterario, Luigi Baldacci:

"Perché l’Ottocento…non è mai finito. L’Ottocento continua ad essere il nostro secolo per una ragione semplicissima (anche se poco considerata): ed è che ci consente di leggere poesia e romanzi, di ascoltare musica e di vedere quadri secondo un rapporto di fruibilità che non ha bisogno di mediazioni critiche…l’Ottocento continua a darci l’impressione di aver capito la vita”.

Idalberto Fei                

La Televisione dell’Ottocento

UN’IMMAGINE RIFLESSA

Intervista a Saverio Tomaiuolo a cura Di Angelica Fei Barberini


“La televisione dell’Ottocento: i vittoriani sullo schermo italiano”. In questo libro lei analizza gli adattamenti di alcuni grandi classici inglesi quali punti di partenza per riflettere, non tanto sul passato, ma sulla contemporaneità da una prospettiva diversa. L’idea è che questi film e sceneggiati prodotti dagli anni Sessanta in poi, abbiamo dato al pubblico italiano “un’immagine riflessa del proprio presente”. Come è stato possibile? E che ruolo aveva la televisione nella vita delle persone in quegli anni?

Soprattutto nei primi decenni della sua fondazione e fino agli anni settanta, la televisione costituì un mezzo importantissimo non solo per intrattenere e “informare” gli italiani, ma anche per “formarli” come individui e cittadini, sul modello della BBC. La British Broadcasting Company rappresentò infatti un precedente importantissimo sia per i vari direttori generali della RAI, sia per i registi e i soggettisti dell’epoca. La televisione per molti anni – in Inghilterra prima e in seguito in Italia – si trasformò in un vero e proprio rituale (laico) collettivo, con le famiglie riunite attorno ad essa per osservare delle storie che solo apparentemente erano collocate in un passato piò o meno distante. Di là dal fascino delle rappresentazioni in costume che molto dovevano al teatro, in particolare nei primi anni, gli “sceneggiati”, grandi autori (come Dante Guardamagna) e registi TV quali Silverio Blasi, Sandro Bolchi, Daniele Danza, Edmo Fenoglio, Anton Giulio Majano, rileggono i classici letterari ciascuno secondo la propria sensibilità e orientamento culturale.  Le grandi narrazioni ottocentesche (inglesi, francesi e russe in primis) furono un enorme serbatoio di spunti e di idee, ma anche un’occasione per utilizzare il passato per parlare al e del presente.


Nello sceneggiato del 1980 La donna in bianco, tratto dall’omonimo romanzo di Wilkie Collins (1859) si discutono argomenti di pressante attualità nell’Italia di quegli anni, come la discriminazione legislativa di cui erano ancora vittime le donne (il “delitto d’onore” fu abolito solo nel 1981), la violenza domestica, le malattie mentali e la “Legge Basaglia”. Temi che sono in gran parte presenti nel testo originale e che vengono trasposti, adattati al contesto presente. Cosa stava cambiando in Italia da questo punto di vista e che cosa la accomunava all’Inghilterra di metà Ottocento?

Anche la visione dello sceneggiato “La donna in bianc”o (1980), tratto dal più famoso romanzo di Wilkie Collins, mi ha permesso di ritornare alla storia italiana prima e dopo l’approvazione della legge su divorzio e, al contempo, di riflettere su altre forme di discriminazione e violenza esercitate su altre categorie “deboli”, quali i malati di mente. Ed è sintomatico che l’adattamento di Idalberto Fei e Giovannella Gaipa diretto da Mario Morini facesse riferimento indiretto a queste due problematiche utilizzando, direi quasi “naturalmente”, un romanzo che parlava dei medesimi argomenti dei quali si discuteva in Italia in quegli anni, soprattutto grazie al contributo, da un lato, del femminismo, e dall’altro, di quella grande personalità della “politica” nel senso più alto del termine, quale fu Basaglia. La “traducibilità” dei romanzi vittoriani è testimoniata dal fatto che la più recente versione televisiva di The Woman in White, prodotta dalla BBC - con Riccardo Scamarcio nel ruolo del malvagio Conte Fosco - sia stata realizzata sull’onda lunga del movimento “Me Too”.


Poche serie TV hanno incontrato in tutto il mondo la fortuna di Downton Abbey - e ancora più recentemente di Bridgerton – i cui autori sembrano conoscere molto bene le tecniche e il fascino del romanzo vittoriano; quanto devono queste serie ai romanzi ottocenteschi?

I vittoriani da un lato sono riusciti a creare storie avvincenti, e dall’altro hanno modernizzato il concetto di “serialità”, spesso concludendo i capitoli dei loro volumi con quello che oggi di definirebbe un cliffhanger. Se solo immagina che orde di lettori attendevano l’uscita dell’ennesimo capitolo di un romanzo di Dickens accalcandosi sul molo dei porti dove giungevano via mare gli “installments” (le pubblicazioni settimanali o mensili del testo), oppure che Arthur Conan Doyle fu costretto a “resuscitare” Sherlock Holmes dopo averlo fatto morire, assieme all’arcinemico Moriarty, nelle Cascate Reichenbach nel racconto “The Final Problem” , a causa delle richieste del pubblico, allora è chiaro come nulla di ciò che accade oggi con le varie serie o con gli innumerevoli e talvolta improbabili sequel sia davvero nuovo.


“Un sandwich pieno di segatura!” urlò un giorno che aveva i nervi Charles Dickens, tirando al muro il libro di un collega. Per fortuna c’erano e ci sono altre opere valide: Professore, se dovesse suggerire un romanzo vittoriano (o più di uno) ai nostri lettori, quale sarebbe?

Se dovessi suggerire qualche romanzo vittoriano, magari meno noto, indicherei The Way We Live Now di Antony Trollope (La vita oggi, ed. Sellerio), il suo capolavoro, che parla di scandali finanziari, e di quanto il denaro, l’interesse e la corruzione ci rendano schiavi e meschini. Quanto di più attuale? Ma vi avverto: ci vuole molta pazienza perché si tratta di un testo monumentale e di una lettura che deve essere praticata con lentezza, e dunque ad un ritmo al quale non siamo più abituati. Se invece volete un romanzo, in termini culinari, più “speziato”, è d’obbligo Lady Audley’s Secret (1861) di Mary Elizabeth Braddon (Il segreto di Lady Audley, ed.Fazi), che include bigamia, manicomi e mogli che scagliano i loro (ex) mariti, rei di averle abbandonate ad un triste destino, in un pozzo per evitare che il loro “segreto” sia rivelato. Non male per un’epoca ritenuta, erroneamente, famosa per i suoi polverosi salotti, per i pesanti arredi e per i bustini stretti.


Saverio Tomaiuolo è Professore associato di Lingua inglese presso l’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale. Ha pubblicato numerosi libri, articoli e saggi sulla letteratura vittoriana e le traduttologia su riviste nazionali e internazionali.



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