Necessità e volontà
Homo fuge: yet shall not Faustus flye[1]
Christopher Marlowe
Mi succede di pensare all’ostentata umiltà di chi, pur scrivendo e pubblicando poesia, non dichiara la forza mistica del voler caricarsi la croce sulle spalle. “Non chiamatemi poeta”, si legge a corollario di dibattiti più lunghi che fruttuosi. Lo smalto delle voci antiche, che abbarbicano il senso alla dignità della colpa, è ben lungi dalle nostre quotidiane pantomime, atte a mascherare la febbrile necessità di esistere.
In quanto sono uso preferire il pathos all’ethos come punto di fuga definitivo della voce che tenta una crepatura verso il non-finito, potrebbe bastarmi rievocare brevi brani di Eschilo per comprendere quanto ne sia lontana la propensione artatamente dimessa – di cui le prime righe del presente scritto – mentre si sagoma opalescente la sapienza antonima di “canto” cui si intende (o si creda di essere condiscendenti nel farlo) inscrivere la propria sussistenza spirituale e mondana, pur fugace.
Nel Prometeo Incatenato, ad esempio, la forza del titano è satanica, nasce come la poesia nel suo insano nocciolo; egli ha sfidato gli dèi e la loro volontà di monarchi incontrovertibili (quella del neo-tiranno, il Dio giovane, lo Zeus appena asceso e sospettoso poiché minacciato d’una deprivazione fatidica). Ha donato il fuoco ai mortali, ha praticato magistero d’arti divinatorie, ha mostrato che la parola non può sbriciolarsi se non tra le dita del sogno tempestoso. Chi si consegna a questa libbra consapevolmente non ha la possibilità di sviare i fati che si tessono con il nome stesso di poeta.
Il coro, come pure accade nella tragedia delle Supplici, tenta la ragione di fronte a un Prometeo tracotante e altero, adirato con i poteri sùperi, istruendolo sulla vanità della ribellione alle volontà altrui, e rammentando che l’accettazione delle Moire sia addicevole segno d’avvedutezza e serenità interiore.
Giunge, a quel punto, la definitiva ribellione del titano: bisogna “insolentire gli insolenti[2]”, con voce e sforzo, visione di chi, ancorché decaduto, ha accettato un destino e l’ha scritto arteria per arteria.
Mi pare che non esistano decisioni univoche; ogni sentiero si concatena all’altro, ogni male è foriero d’altro male. Sempre citando le Supplici, il re degli Argivi è posto di fronte alla necessità, l’anánke più cruda che vuole fissare beffardamente il volto frastornato di colui che si trova di fonte all’alea dei dadi gettati: qualunque decisione sopraggiunta avrà ripercussioni.
Dunque è una questione di responsabilità? La parola imbandisce altari di rami e unguenti? È una questione che possiamo risolvere con tanta miseria da rivendicarci innocenti dopo averla provata?
Cercando (insoddisfacenti?) risposte, ricordo qui un altro momento tragico, stavolta elisabettiano. Mi riferisco al protagonista del Dottor Faust di Christopher Marlowe, che tradendo il sentiero della teologia e della scienza medica abbraccia la magia: vuole essere eretico; tale è la sua riottosa disposizione verso i dogmi del Dio cristiano, che promette salvezza dall’invisibile: il Nostro paga lo scotto d’una tenzone spietatissima, e anche qui è la parola l’atto supremo di avversione, poiché la tragedia moderna si risolve sul piano plurivalente che già spingeva i dolenti fatti delle scene antiche; si officia l’ambiguità generatrice, la volontà di perseverare nel segno scritto e pronunciato, il logos scisso dalla praxis che si condanna proprio per questa ebetudine che si slarga dipoi in abisso etico.
Nondimeno il protagonista è risoluto: “Homo fuge. Ma Faust non fuggirà[3]”. Come Prometeo, colpito dal fulmine olimpio, ingoiato delle rocce del Caucaso, il Faust di Marlowe non ha arrancato innanzi alla responsabilità, ha dichiarato il suo nome, ha sopportato infine la croce, le catene, la dannazione. Non si è sottratto negandosi alla necessità e alla volontà.
Atto sacer, sbigottente, poiché spezza una catena per tingersi nel fango della materia, ed è savio tanto da non poter uscire illeso. I ventiquattro anni sanzionati correranno veloci e l’explicit dell’opera vedrà i suoi compagni ricordare quell’anima dannata come quella di uno “studioso ammirato/per la sua sapienza in tutte le scuole tedesche[4]”.
Ma, mi si obietterà, in esergo si stava dibattendo di poesia. Il mago, l’eresiarca o il poeta: davvero pensiamo faccia qualche differenza?
[1] C. Marlowe, ll dottor Faust, Mondadori, Milano 1983, traduzione di Nemi D’Agostino
[2] Eschilo, Supplici – Prometeo Incatenato, Mondadori, Milano 1994, traduzione di Laura Medda.
[3] C. Marlowe, op. cit.
[4] C. Marlowe, op. cit.
La lettura di questo articolo è riservata agli abbonati
ABBONATI SUBITO!
Hai già un abbonamento?
clicca qui per effettuare il login.
Sostienici
Lascia il tuo commento