Nomen omen
Vignetta di Fabio Tamborrino

Nomen omen

diLoredana Semantica

Ogni mattina di buonora Linda si recava in chiesa. Alle sei e trenta c’era la funzione e Linda da anni non mancava di partecipare, sempre lì al primo banco a pregare prima di cominciare la giornata. Tornava a casa alle sette e mezza, giusto in tempo per la colazione. Una piccola tazza di latte e caffè e tre fette biscottate, niente zucchero. Una colazione sobria che Linda consumava in fretta, seduta al tavolo della cucina, guardando la televisione e pensando alle incombenze del giorno. Raramente prestava attenzione a quanto trasmettevano in televisione, l’accendeva più che altro per avere una compagnia. Talvolta pensava che per compagnia sarebbe stato preferibile un animale domestico, un cane ad esempio, oppure un gatto, un uccellino che con i suoi occhietti vispi e i gorgheggi mattutini le avrebbe dato il buon giorno, ma alla fine Linda accantonava l’idea. Si diceva che era meglio di no, che ogni scelta comportava un suo disagio. Ogni essere richiedeva cure e pensieri. Un uccellino in gabbia le faceva pena, la vaschetta dell’acqua era da pulire, quella del cibo da riempire, bisognava spostare la gabbia in ombra se c’era il sole, tenere lontano l’animaletto da correnti d’aria ed esalazioni. Un gatto era da escludere perché avrebbe graffiato i mobili e le tappezzerie di casa, si sarebbe appropriato del suo divano oppure della poltrona preferita, il cane avrebbe rovinato il giardino, occorreva farlo uscire per i bisogni più volte al giorno, curarlo se ammalato, educarlo come un bambino, e lei bambini non ne aveva avuti, figuriamoci se poteva dedicarsi a un cane, anzi per la verità figli lei non ne aveva voluti, come non s’era nemmeno voluta sposare. 

Sì, certo qualche amore l’aveva pure avuto, ad uno era rimasta legata fino ad ora, uscivano ogni mercoledì sera: una pizza, una passeggiata, qualche effusione abitudinaria, sempre più diradata, ma Linda non aveva mai pensato al matrimonio, anche un uomo avrebbe avuto le sue pretese: biancheria da lavare, camicie da stirare, il pranzo pronto, la cena altrettanto, un giorno dopo l’altro, una teoria infinita di doveri.  

Il matrimonio non era una stata la sua vocazione, di non averlo scelto non si era mai pentita. Ormai prossima ai sessanta, Linda era una signora di piacevole aspetto, rispettata, con una bella casa perfettamente in ordine, un conto corrente ben nutrito dalla parsimonia. 

I genitori di Linda abitavano in una casa in affitto da soli.  Quando Linda, risparmiando con ferocia, ebbe acquistata la sua bella casa non aveva pensato, nonostante fossero anziani, di invitarli a stare con lei. Tra loro si facevano reciprocamente visita nei giorni di festa comandata: Natale, Capodanno, Pasqua e le altre da calendario, oltre a qualche domenica ogni tanto. Pranzavano assieme seduti a un tavolo rotondo a tre posti, anzi a quattro. Il quarto era il silenzio prevalente inframmezzato da conversazioni spilorce. Linda era figlia unica e il desiderio dei genitori di avere dei nipoti era naufragato da tempo. Alla fine entrambi i genitori, disseccati da tanta aridità, qualche anno prima erano morti uno dopo l’altro. Se n’erano andati in punta di piedi. Il primo nel sonno per un ictus, l’altra l’anno dopo a causa una polmonite perniciosa che, nel giro di pochi giorni, nonostante le cure antibiotiche e il ricovero ospedaliero, l’aveva stroncata. Sembrava quasi che anche i genitori, conoscendo la figlia, non volessero darle il disturbo di morire dopo una lunga malattia o una lenta agonia per le quali avrebbero avuto bisogno di assistenza. 

Linda così era rimasta sola, ma non soffriva granché la solitudine, la sua vita ordinata e tranquilla, era esattamente ciò che aveva scelto, la soppesava nei rari giorni in cui si soffermava a pensare e ne dava un giudizio positivo: scorreva serena e organizzata, quasi perfetta.

Del resto a lei non mancava niente, un buon lavoro di funzionaria le permetteva di vivere dignitosamente. Ogni giovedì c’era il pomeriggio di burraco con le amiche. Si andava a turno a casa dell’una o dell’altra. Il sabato era destinato alla spesa alimentare. Il martedì agli acquisti per la casa o di vestiario. Gli altri giorni della settimana erano impiegati secondo necessità: una volta c’era da portare a riparare un elettrodomestico, un altro da pagare l’assicurazione, un altro ancora la visita dal medico oppure pratiche d’altro tipo da sbrigare. 

Talvolta Linda sentiva la vicina disperarsi e rimproverare i suoi figli, Sergio e Teresa, rispettivamente di tre e cinque anni. I bimbi a turno erano ammalati e lei li poteva sentire piangere e lamentarsi la notte. Di solito giocavano tranquilli, ma capitava sempre che uno cadesse in giardino scoppiando in un pianto dirotto o che all’improvviso, interrompendo i giochi, si azzuffassero tra loro. La loro mamma interveniva a consolare, a mettere pace, li sorvegliava e si occupava di loro, senza un attimo di riposo. Linda si chiedeva perché quella donna si fosse così ingarbugliata la vita: un lavoro che l’impegnava dalle otto del mattino alle diciotto della sera, due figli piccoli da portare all’asilo ogni mattina vestiti, lavati e nutriti. Aveva un marito e pure un cane a cui badare. Un beagle pezzato che abbaiava come un matto, amava l’acqua, zampettare nel fango e sporcare dappertutto. 

Linda invece amava il silenzio della sua casa, amava i suoi ninnoli, gli arredi senza un filo di polvere, il giardinetto con i vasi di fiori che innaffiava regolarmente. D’estate un giorno sì e uno no, d’inverno non più di una volta alla settimana. 

Qualche volta, la domenica, dedicata abitualmente ai lavori di giardinaggio, mentre irrigava la sua siepe ben potata, si fermava a guardare le piante sofferenti nei vasi della vicina, si chiedeva perché mai quest’ultima non s’impegnasse a innaffiare il suo giardino. Con le foglie accartocciate margherite, begonie rosse e gialle, i gerani lilla di sei imponenti fioriere rettangolari erano prossimi a esalare l’ultimo respiro. I vasi erano allineati in prossimità del muretto di confine, non sarebbe stata una gran fatica sollevare il tubo e raggiungerli col getto d’acqua, quasi per sbaglio, come una casualità, una distrazione, eppure a Linda l’idea non era passata minimamente per la testa; riteneva un simile gesto, più che un’ingerenza nelle faccende altrui, uno spreco d’acqua e di tempo per qualcosa che non la riguardava. 

Non per niente Linda si chiamava Linda Avarizia. In paese qualche conoscente, con l’occhio lungo e la lingua altrettanto, malignava che per lei sembrava proprio vero il detto nomen omen. Nel nome un destino. 

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