Parlare di poesia
Il 31 maggio 2004 Yves Bonnefoy ha tenuto un discorso di ringraziamento ai professori dell’Università di Siena.
Era dal 1960 che veniva periodicamente invitato a tenere conferenze nelle varie Università europee.
Oltre ad essere poeta, Bonnefoy è stato un intenso traduttore di Shakespeare e Keats.
La sua idea centrale è concepire la poesia come un riavvicinamento tra le parole e le cose, così come doveva essere in origine, prima che la concettualizzazione cancellasse la loro ancestrale prossimità.
A Siena Bonnefoy si soffermò sul rapporto tra poesia e Università e da quel discorso venne fuori un importante saggio con questo titolo, appunto, “Poesia e Università”.
Il rapporto che lui voleva analizzare non era quello relativo allo studio, per forza di cose necessario al poeta che voglia avvicinarsi alla creazione, ma quello piuttosto legato all'invenzione e alla creazione.
Bonnefoy crede che la poesia sia in un momento di difficoltà (il 2004 è un anno molto vicino a noi, per cui possiamo senz’altro estendere la sua idea anche ai giorni nostri) e forse l'Università può svolgere un ruolo cruciale per far sì che si possa ritrovare interesse verso il desiderio di scrivere versi. L’Università deve essere necessariamente intesa come luogo di rinascita di un processo creativo in altri luoghi soffocato.
Preso atto del fatto che l’amicizia tra poeta e professore sia stata nei secoli precedenti spesso burrascosa (basti pensare a Rimbaud che ha lasciato gli studi, pur essendo di spiccata intelligenza, per vivere la vita nella sua pienezza senza interferenze intellettuali), Bonnefoy si chiede come potrà essere questo rapporto nel presente e soprattutto nel futuro.
Se è vero che la poesia è “il bisogno di incontrare le cose e gli esseri del nostro mondo ordinario in maniera più immediata e piena di quanto non permetta l’esercizio del pensiero concettuale”, è “una ripresa di controllo di sé, un ricominciamento”, il poeta deve liberarsi dalle costruzioni ingannevoli che le oppone il pensiero, liberando il proprio immaginario dai condizionamenti dei concetti e portando la fantasia fuori dall’alienazione.
Eppure, ciò che nutre il poeta è sostanzialmente “il discorso degli altri uomini e donne del suo tempo” e questo può essere veicolato solamente dai ricercatori, i professori, i filologi che hanno studiato la storia delle idee e possono svelarne i segreti.
Per questo i poeti hanno bisogno delle Università, hanno bisogno delle biblioteche in cui si fa ricerca, hanno bisogno dei gruppi di studio che discutano di poesia, perché solo l’Università è “nel mondo contemporaneo l’unico spazio che possa essere assegnato al necessario deciframento del fatto umano”.
Bisogna stabilire tra poeta e professore una nuova, grande alleanza.
Bonnefoy ricorda che poesia e letteratura non sono la stessa cosa.
La poesia trasgredisce i significati della realtà, mette in discussione il significato in quanto tale. La poesia va oltre il livello letterario.
E dunque la vera linfa è la poesia, “poiché questa memoria della presenza è precisamente la capacità di comprendere che la trascendenza affiora in tutto e in ogni istante, come semplice sovrappiù degli oggetti della nostra attenzione sui nostri modi di decifrarli. Senza bisogno di alcun mito o di alcun dio, semplicemente perché ritorce le parole contro i concetti, che compromettono l'unità di tutto ciò che è, la poesia riconosce la trascendenza nell'albero e nel vento che agita l'albero, la sente nel rumore della risacca sui ciottoli della riva, e ben inteso e in primo luogo ne sperimenta il dato negli sguardi che incrocia. [...] La poesia? Sarebbe la salvezza della società, se solo quest'ultima sapesse riconoscere questa evidenza”.
Un altro monito lascia Bonnefoy: che i poeti diventino traduttori, per essere più poeti. Devono sfogliare lessici, divorare grammatiche, discutere con i professori; e l’unico luogo in cui questo può essere fatto è l’Università.
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