Pierrot
Pierrot se ne sta lì immobile, disteso su un fianco, gli occhi chiusi, le orecchie abbandonate, il corpo afflosciato e spento. Senza vita. Immobile dentro una buca vicino al giuggiolo, avvolto dentro un telo che lo protegge dal contatto col freddo, l’umido e lo sporco della terra. Preservato, almeno per un po’, dalla brutalità del divenire della materia. Almeno così penso. Così voglio pensare. Che rimanga così sempre. Come l’ho lasciato quando l’ho avvolto dentro il telo. Le zampe allineate, la testa composta, la coda vicina al corpo. E il pelo lisciato con delicatezza dalla mia mano stanca, gravida di tristezza e di fatica, e di una rabbia sorda che annienta se stessa. Sopra, la terra smossa è umida e intorno aleggia una nebbiolina triste che lacrima di silenzio e di morte. Anche Pierrot se n’è andato e a me è sfuggito qualcosa dalle mani. Mi è sfuggito il suo respiro dolciastro, le sue zampette solide, la coda gonfia che dimenava ogni mattina, non appena mi vedeva o quando non mi vedeva da un po’, se il malessere che da qualche tempo lo tormentava gli dava un po’ di tregua. Mi è sfuggito il suo corpo caldo che amavo accarezzare e consolare, sperando di riuscire a fermare su quel pelo morbido, a macchie bianche e nere, la vita che in lui si era fatta incerta, non ben sicura di poterci stare ancora, né quanto, né come. Mi è sfuggito il sogno di poterlo veder correre ancora felice tra l’erba sotto gli ulivi, alzare la zampa contro un tronco, sostare un po’ e poi riprendere a correre e annusare dovunque, disordinatamente, a testa bassa, le orecchie al vento. Mi sono sfuggite tante immagini che adesso se ne stanno lì, diafane e polverose dentro il mio cervello, e vagano, vagano senza che io possa afferrarle, perché sono inconsistenti, come il tempo che è passato e che se ne scivola all’indietro, sempre più veloce, sempre più inafferrabile. Morto anch’esso, come Pierrot. Mi aggrappo a esse e rimango sospesa. Vacillo e rischio di cadere. Allora cerco di tener salda la presa, almeno per un po’, fino a che il dolore si sarà fatto più sbiadito, e quelle stesse immagini si saranno fatte più dolci, meno pungenti. Anche la vita nel frattempo si sarà fatta meno pungente. É così da quando esisto. La vita si affatica e smorza i toni. É un modo per sopravvivere. Non so se sia giusto. Ti abitui al dolore. O meglio, ti abitui a sopportarlo, perché hai imparato che il tempo se ne corre via in fretta e sbiadisce ogni cosa. Anche il dolore. E poi con tutti gli anni che hai vissuto sei così imbottito di dolore che quello passato fa da cuscino a quello nuovo, lo attutisce e non ti ritrovi più l’anima tutta lacerata, perché è già piena di piaghe e stai attento a non strapparla troppo. Potresti morirne e invece senti che davanti a te ti rimane ancora un po’ di tempo e perciò ti servono altri pezzetti di anima. Da lacerare ancora, anche se non sai da cosa, né quando, né quanto. Così mi aggrappo a quelle immagini e mi illudo che Pierrot ci sia ancora. Fino a ieri era lì, nell’angolino a fianco della credenza nella sala da pranzo, seduto immobile, gli occhi spenti, il respiro che ogni tanto si inceppava. Era in cucina, sul tappetino davanti al lavello, o di fronte alla porta-finestra a guardar fuori, il piazzale davanti a casa, gli alberi oltre il muretto a secco, il cielo. Guardava davvero? Io ho creduto di sì. Allora gli aprivo la porta-finestra e lo facevo uscire. Sulle prime Pierrot non si muoveva, poi si alzava, dimenava debolmente la coda e usciva. E si metteva a sedere, davanti alla porta-finestra. O muoveva qualche passo e si spostava davanti al portone di casa e si metteva a sedere sul tappeto di cocco davanti all’ingresso. Immobile, sempre. Con la testa piegata verso terra e gli occhi spenti. Allora mi avvicinavo, mi accoccolavo vicino a lui e lo accarezzavo. Perché non guarisci, Pierrot? gli dicevo. E invece adesso Pierrot se ne sta lì, a fianco del giuggiolo, sotto la terra smossa dalla vanga e ricompattata sopra il telo che lo avvolge. Se ne sta al buio, al freddo e al silenzio. Separato da me e dalla vita. Separato dall’aria, dagli alberi, dall’erba, dalla mia mano che lo accarezzava. Dal sole, dalla luce, dal vento, dalla pioggia. La pioggia cadrà e appiattirà il cumulo che sopra di lui adesso è ancora morbido e vaporoso. Il sole prosciugherà la terra che si farà secca e piena di crepe, il vento vi depositerà le foglie del giuggiolo. Pierrot diventerà tutt’uno col giardinetto che lo ha accolto, e in me il dolore per la sua morte diventerà tutt’uno con gli altri dolori che ho seppellito in cuore, rinsecchiti dal tempo, umidi di lacrime, spogli di consolazione.
Ti ho avvolto in un telo fiorito, Pierrot. Così quando diventerai tutt’uno con la terra che ti ha partorito, che hai calpestato felice, i fiori ti si scioglieranno addosso e tu riderai con loro e muoverai le orecchie e dimenerai fremendo la coda, perché in te torneranno a vivere le immagini della tua vita beata, quando percorrevi libero il podere tra gli ulivi, le viti e i cipressi, mentre in alto gli uccelli volavano tra un ramo e l’altro, e si nascondevano in fretta tra le fronde. Vieni, Pierrot, ti dicevo e tu arrivavi correndo felice dall’angolo della casa, dal limite ultimo della recinzione, dove sta accatastata la legna, e mi camminavi a fianco e continuavi ad annusare, a cercare tracce di mistero tra l’erba e i sassi, tra le radici nodose degli ulivi o nell’incavo dei tronchi. Vieni, Pierrot, e scendevamo all’orto e poi al frutteto a vedere quali tracce lasciava ogni giorno il tempo e l’imprevedibilità delle stagioni. Sono stata felice con te, Pierrot. Una felicità silenziosa, senza sussulti, limpida. Continua. Senza scosse, né timori. Piana e dolce come l’onda che si avvicina lenta a riva, e lenta ritorna da dove è venuta. Una felicità buona in cui annegavo ricordi polverosi, fatti di cocci e vetri frantumati. Taglienti e insopportabili. Crudeli nel loro riaffiorare continuo e nel ghigno impietoso con cui mi si riaffacciavano improvvisi, senza ritegno. Ecco, fuggire con te, Pierrot, lasciarsi alle spalle macigni e filo spinato. Camminare con te, Pierrot, tra gli ulivi, chiamarti, aspettare che mi venissi vicino e sentire che la vita era solo lì, in quel momento, con te, Pierrot. Tutto il resto naufragato, perduto in un tempo che non esisteva più, ignoto finanche a me stessa.
Adesso vorrei uscire da questo recinto, da questo podere nel cui spazio abbiamo goduto insieme la vita e la morte ci ha sorpresi, Pierrot, e andarmene. Uscire dalla morsa in cui il dolore mi tiene costretta e mi avvinghia le viscere e mi rallenta il respiro. Andarmene in cerca di silenzio, andarmene sola tra questi boschi, seguire i sentieri dove risuona sulle pietre scivolose e distorte del tracciato solo il rumore dei miei passi e il fruscio dei rami accarezzati dalle mie spalle chine sotto le volte frondose, dalle mie mani che scorrono su esse a cercare un contatto che la vita e la morte mi hanno negato di poter trovare altrove. Sentire tra le fronde il canto di uccelli che non vedo, ma che ugualmente mi fanno compagnia e addolciscono la solitudine infinita in cui mi sono racchiusa da tempo, ormai. Guardare in alto, dove i rami delle querce e dei lecci lasciano libero respiro al cielo e veder volare un rapace, vederlo scivolare lento e sicuro tra le correnti invisibili dell’azzurro, seguire con gli occhi i movimenti ampi del suo volo, stupirmi della sua grandezza, della sua fierezza. Voler essere come lui, sopra le cose, sopra l’aria, dentro la luce. Nascondere nella macchia brandelli di vita, sperare che il dolore venga risucchiato dallo spazio frapposto tra noi e le cose che ci hanno fatto soffrire, e che le effigi lacrimanti dei nostri giorni vengano risucchiate come le foglie dal vento e dalla pioggia e trasformate in una dolcezza pietosa che canti lieve come l’acqua che scorre nel botro.
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