Alle origini del giallo italiano: "Il sette bello" di Alessandro Varaldo
Com’è noto il genere poliziesco non ha avuto vita facile in Italia. Mentre in Europa e negli Stati Uniti si diffonde rapidamente a partire dal 1841, anno di pubblicazione de I Misteri della Via Morgue di Edgar Allan Poe, e trova numerosi seguaci, in Italia viene osteggiato dalla critica perché considerato un genere letterario di serie B.
Sebbene, sulla scia de I misteri di Parigi di Eugène Sue, tra fine Ottocento e inizio Novecento, Francesco Maistrani, Matilde Serao, Carolina Invernizio e altri seguano la moda letteraria dei “misteri”, oscillanti tra il gotico e il giallo, per convenzione si fa risalire al 1929 la nascita ufficiale del poliziesco in Italia.
Il 1929 è, infatti, l’anno in cui la Mondadori inaugura la collana “Libri gialli”, che darà il nome al genere, in virtù delle copertine di colore giallo. Si tratta, però, di libri stranieri. Per due anni Mondadori pubblica Van Dine, Stevenson, Wallace, Green, Christie finché, nel 1931, a causa di una legge fascista che impone la pubblicazione di uno scrittore italiano ogni cinque stranieri, la casa editrice deve trovare un giallista italiano.
E a chi si rivolge? A uno scrittore molto famoso all’epoca, di grande esperienza, uno scrittore che ha un suo pubblico affezionato: Alessandro Varaldo.
Alessandro Varaldo (1876-1953) è, a quel tempo, uno dei narratori più prolifici e più letti in Italia. Spazia in tutti i generi: dal romanzo alla raccolta di novelle, dal teatro al libro di memorie, dalla storia romanzata alla poesia. Autore assai amato, non viene mai meno al suo imperativo categorico: “non annoiare”.
Alla richiesta di Arnoldo Mondadori, Varaldo risponde con Il sette bello, suo primo romanzo giallo e primo giallo italiano che esce nella primavera del 1931 e ha subito un discreto successo. Ambientato nel 1930 a Roma e nella campagna circostante, ha come protagonista il commissario del Quartiere Trionfale Ascanio Bonichi, uomo bonario, conoscitore del genere umano, di grande esperienza, più vicino a Maigret che a Sherlock Holmes. Con i suoi folti baffi neri e il mento “non raso di fresco”, di aspetto trasandato, gioviale, allegro, Bonichi porta con sé un bastone, la rivoltella, una lampadina tascabile e un fischietto, lavora nella polizia da molti anni e non condivide l’approccio scientifico alle indagini dei suoi superiori. È, al contrario, consapevole del ruolo decisivo del Caso nella soluzione dei misteri. Accoglie con favore le strane coincidenze e i messaggi dell’inconscio, nonché l’aiuto del divino: “… uno spiraglio che ci serva appena appena per non mettere un piede in fallo, ci giunge dal Caso. Il Caso, che poi – me lo neghi se può – viene mosso da una forza soprannaturale”.
Il titolo del romanzo, Il sette bello, allude, infatti, alla carta da gioco che dà sempre un punto, la carta vincente per la conquista della quale non basta l’abilità, ma ci vuole anche la fortuna.
La vicenda si apre con tre ragazzi e una ragazza che si ritrovano in una trattoria romana e giocano a scopone. Sono giovani, scalpitanti e desiderosi di avventura. E l’avventura non si fa attendere. Arrivati in un appartamento della periferia romana, dopo aver risposto a un annuncio sul giornale, nel momento in cui suonano il campanello sentono uno sparo e scoprono un cadavere. Interviene allora il commissario Ascanio Bonichi con cui collaboreranno alle indagini.
Il romanzo (rieditato nel 2006 da De Ferrari) è corale, le voci narranti sono cinque (il commissario e i quattro ragazzi), ognuna con un suo stile e una sua filosofia. Scritto con una lingua per noi un po’ desueta ma molto efficace, a volte volutamente “bassa”, con note di colore affidate al dialetto, a volta ambiziosamente letteraria, con citazioni latine. Il plot poliziesco cede di continuo il passo alla commedia, al melodramma, al romanzo d’avventura, a reiterati, divertenti malintesi che lo rendono molto diverso dalla detection classica. Si tratta di un romanzo, nel senso più pieno del termine, prima che di un giallo, a cui è probabile si sia ispirato Carlo Emilio Gadda per Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana (1957), ambientato anch’esso nella Roma fascista.
Sostienici
Lascia il tuo commento