Sebastiano A. Patanè-Ferro, Mastro di poesia
Sebastiano A. Patanè Ferro, era innanzitutto un grande uomo, che ha trasformato i suoi sogni e le sue aspirazioni in poesia.
La sua è stata una vita piena, guidata dalla sua anima selvaggia. Amava girare il mondo, conoscere, meravigliarsi, osare, sperimentare ma soprattutto innamorarsi della gente e delle parole. Ha seguito le orme di Federico Garcia Lorca e amava la musica sperimentale tanto da farne una nuova e intrigante letteratura.
Sebastiano si può definire il poeta del nuovo, il più creativo e ricettivo.
L'ultima parte della sua esistenza, quando la vista ha ceduto e l'ernia cervicale è diventata tiranna e guidare era ormai impossibile, la trascorre in quella casa da tutti chiamata Casa Mastra. In via Fosse della creta a Catania, in un quartiere di periferia, una luce guidava tante lucciole smarrite verso il proprio io interiore. Varcato il cancello di quella casa non vi erano più differenze, Sebastiano accoglieva tutti con quella sacralità dovuta all’ospite senza fare distinzione tra artisti, medici o ragazzi di strada.
Ho ritrovato la mia fede grazie a lui, ho creduto finalmente che quel Dio di cui spesso si parla è racchiuso in ognuno di noi. Bisogna scavare, soffrire, accettare anche il male, per trovarlo.
La sua poesia diventa intima, gioca in cucina, si libera in cortile e fa crescere i fiori. Mai banale, mai ripetitivo, mai uguale. La sua poesia dorme con lui, vive e parla sui muri e non lo lascia neanche per un giorno.
Ha consacrato la sua intera esistenza a questa ricerca interiore, alla bellezza e alla scrittura. Non amava omologarsi, non riusciva a fingere con nessuno e aveva un solo e grande difetto: immergersi nelle cose e nelle persone con tutto il cuore, spesso sbagliando e non imparando mai da quegli errori. Nessuna delusione lo hai mai cambiato, credeva negli uomini e continuava a dare la sua fiducia senza alcuna esitazione.
Era un buono e la sua ingenuità era la parte più bella che ha consegnato a noi intimi amici. Le sue lacrime erano per me il siero benedetto, l'essenza della vita.
Con Sebastiano ho riscoperto uno dei valori più importanti: la famiglia intesa come un insieme di persone che guardano nella stessa direzione.
Sebastiano A. Patanè Ferro era lupo solitario e capo branco, elegante e spettinato come le sue parole. Il suo essere così vero, così imperfettamente umano ha fatto sì che molti, anche i più riservati, si aprissero e trovassero in Casa Mastra, nel cortile delle tante parole, un po' di libertà. Nella semplicità, in quella vita così modesta e povera c'era la gioia più grande che niente e nessuno potrà mai sostituire.
Poeta viscerale e sociale, regista visionario che scrive un teatro meraviglioso, intimo, archetipo, mitologico e assolutamente contemporaneo. Per me, lui era la contemporaneità assoluta.
Sebastiano è stato definito mastro, non maestro, perché lui insegnava a tutti noi come si fabbrica la poesia. Anche cucinare con lui era poesia, esiste anche una raccolta di ricette poetiche per esplorare tutti i sensi.
Di una vita normale Sebastiano non sapeva che farsene. Spirito libero, uomo di tante parole, anima fragile e cuore nobile, ha lasciato un grande vuoto, un doloroso taglio al cuore; personalmente ritengo abbia lasciato anche una eredità poetica e teatrale, disumana, monumentale, a breve si avrà l’opportunità di leggere quegli inediti che forse nemmeno lui stesso sapeva sarebbero diventati, solo dopo la sua morte, storia. Io, la sua migliore amica (come mi ha sempre definito), la sua nipotina poetica, la sua piciridda, ho sempre saputo del suo volare alto sopra tutti noi.
foto di Donatella D'Angelo
9 dell'assenza
è che non tornano le verità dell'attimo
ma vorrei che le rose promettessero ancora
la loro eternità
che le api danzassero il rito del carrubo
e vorrei un pane da spezzare anche senza sete
affinché le allodole per sempre
continuassero il lo viaggio
ma questa vastità di niente
dove ogni cardine si perde
dove non c'è un "dove"
e la miseria pure s'allontana...
in quest'assenza immobile
a viscosità infinita
anche il cielo ha smesso di guardare
è che hanno accecato le ali agli angeli...
[devo tornarci ogni giorno]
non ci andavo da tempo ma le ginestre continuavano a crescere uguali
tra le pietre dell'indifferenza lungo le crepe della sciara
risaliamo gli inchiostri fino a trovare parole per poterci dire qualcosa ancora
- i capelli, son diversi, bianchi… -
ho accostato falsi e veri nei ricoveri della mente quando impazzivo per l'assenza
quando i fiumi d'eucalipto s'addensavano dietro le sponde dei ricordi
oppure quando ridevo e ridevo dei surrealismi naif sbocciati dalle mani
- anche le spalle, sembrano incurvate… -
i girovaghi sorseggiano la vita a mezzi episodi per volta
circondandosi di varchi e muraglie per dare e trattenere
senza contare gli spiccioli che fanno della vita una continua attesa
- il sorriso, non c’è più sorriso… -
devo tornarci ogni giorno in quella radura dove posso incontrarti da parte
e dirti - ma tu lo sai- del vuoto vuoto delle cavità illegittime
degli occhi bucati da un sole sfacciato che non si vuol mettere da parte
- e nemmeno voce -
i calendari, come le ginestre, continuano a riempirsi di segni
ed i bambini cresciuti sono già altra miseria sulla strada
mentre una luna di stagno mi segue passo passo
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