Dialoghi / Carlo Ragliani e Diego Riccobene II^ parte
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D.R. La più concreta conseguenza del perseguire il tragico è procombere alla forza d’Eros. Forza ineguale e proditoria, si dirà, che distrugge ancor più di quanto sappia creare ― nata dal Caos, ovvero dall'uovo "senza germe" partorito da Notte, primigenia.
Pertanto è sorgiva: le sacerdotesse eliconie, suppone Graves, celebravano danze propiziatorie di fertilità in origine, mosse da follia estatica; il laurus differisce ben poco dal tirso d’edera dionisiaco.
Ci pare naturale addimandare l’Eros come “tensione” instillante desiderio e sofferenza nel non-adempimento, penetrante nei lembi, nello squarcio vaginale da cui il profluvio dell’altro, e la perdita conseguente.
Ciò inteso, ogni parola che pronunciamo è parola morta se non la si intinge nel bollore del “patire”, del deteriorarsi irrimediabilmente. Scio-excrucior è la dicotomia che non è possibile escludere dall’indagine qui esposta, dal momento che Poesia è tensione al possesso di quale che sia verità ― sacra, che lo si ammetta o meno ― e che la verità ingenera tensione sessuale a sua volta, Amore; l’Amore si terge di sofferenza, la sofferenza di decadimento.
Se il verso alligna nella terra nera, lo deve fare “patendo”, ossia suffragando l’excrucior, che è a sua volta ossimoro del sim-bolico (dunque il dia-ballo), a patto di perseguire una ricerca formale che sussuma posture certe nei confronti della parola.
C.R. Non si può più concedere l’inganno che il tragico sia l’eccezionalità dell’accadimento, né si può mostrare il fianco al presupposto che la percezione della tragicità degli eventi sia di pertinenza esclusiva di una semantica relativa a fatti luttuosi, eventi lugubri, disgrazie e conseguenze anche con riferimento a casi dell’esperibile comune.
Assunto, anzi, che la tragedia ― rectius: il sentimento che trova manifestazione in questa ― sia la misura umana della percezione dell’occasum, la conseguenza è che non si può desiderare l’esistenza (tutta) assumendo che questa sia una parte di una complessità eterogenea, avulsa però dalla propria conclusione.
La sottomissione ad una realtà unitaria dell’essere, invero, comprende la berciante sofferenza di non poter soddisfare completamente la soma dei desideri contenuti nell’uomo, e la famelica necessità di completezza.
Ciò che spinge nell’esistere, quindi, sarà il flusso magmatico e plutoniano di cui è intrisa l’umanità: la pulsione erotica, che quando manifestata diviene marziale ed aggressiva, la cui violenza impari informa la volontà ― non più come determinativa di una scelta positiva, ma autodeterminazione di una coscienza e complessa e complessiva che si forgia e si risolve in eterno nella costanza del crucio.
Gli esempi storici di questa teoria si sprecano (e si son sprecati) in ogni branca del sapere umano: sia questo artistico, antropologico, filosofico, psicologico, religioso, esoterico che sia; eppure, in ossequio alla necessità verticale dell’ascensione che trafigge l’orizzontalità dei fenomeni, la risalita al primordio attraversa l’interesse istintivo verso le forme e le sostanze, non già nella vulgata espressamente sessuale dello stesso, quanto più nell’impulso verso il posseduto e l’inarrivabile.
Permettere a questo flusso di poter dispiegare le spire nello sforzo tonico di slanciarsi, soprattutto nella sua spinta negativa verso il basso, è spezzare questo sym-ballo per poi ricomporlo nell’atto più sublime e tragico dell’arte.
D.R. Accogliere il tragico significa professare un credo, una compartecipazione necessaria al dolore che la ferita comanda, finanche arcaizzando il lessema, straniando il contesto linguistico della contemporaneità, orizzontalmente specchiato su sé stesso.
L’oscurità del dettato, tradotta analogicamente, ritengo si giochi anche su questi fatti linguistici, su questi voluti squarci di ossequio alla tradizione letteraria che non mi paiono esperire meramente nel formale, nell’esornativo.
Cercare una parola volutamente arcaica, che sfrondi gli usi linguistici del quotidiano, non significa situarsi fuori da tempo, ma nel profondo delle sue viscera, attuare predetta verticalizzazione del movimento di ricerca, ascetico o catabatico che sia; si traduce altresì nel soffrire con la parola, sicché il poeta possa penetrare nello strato più denso dello spirito e sappia evocare, chiamare a sé il simbolo, e violarlo.
Allignare nel profondo è, infine, passaggio necessario per pervenire all’ex-voco che è primamente ex-voto. Non si prescinde dalla Morte, né dall’oscurità, anche quando si concreti una teleologia che si dia significanti e significati nella sostanza di fatti estetici o etici.
C.R. La compulsione verso le cose, quindi, non può che adagiarsi su un moto direzionato; sia questo inteso in un’ascensione, ovvero in una discensione. Tuttavia, anabasi e catabasi coesistono nel significato di un unicum spirituale e fisico, e solo insieme possono portare all’esperienza originaria - non più empatica, né tantomeno frutto di sym-patheia.
Questa risponde ed afferisce alla genesi più confacente alle necessità espressive della parola, sia nel senso di alchemizzare la materia dalla sua grezza deformità, sia nel senso di estrarre dall’informe innominato un oracolo, il cui auspicio e plasmatura non è a portata della mano che non ha sanguinato tutta la vita.
Per chiarezza terminologica, si potrebbe instaurare la trans-ascendenza come deformazione della ek-stasys, perché la misura del trascendentale è tragica, nel suo modo di essere esperito dall’essere umano. Questo perché l’estatico, come il mistico, compete etimologicamente al mistero nell’esatta misura in cui la tragicità appartiene al nero del sangue, ed alla notte delle res humanæ.
Di qui, l’immensi responsabilità e rischio di determinare la parola come numinosa di quanto sinora ipotizzato, e che perciò i predicati attraverso i quali si cerchi di esprimere un assoluto (qualsiasi) siano (e sono) fatalmente inadeguati.
Ma è egualmente un mysterium tremendum, e categoria a priori, ontologica e assoluta, la parola poetica come frutto dell’ex-vocare. Specialmente nel momento in cui questa distilli da qualcosa che è al di là di ogni concezione ragionevole, e che provoca una commozione talmente viscerale da poterlo abbattere, distruggendolo.
Essa esiste indipendentemente da ogni elemento divino o umano; l’errore forse sta nella valutazione per cui l’antropocene debba mantenere un comportamento di sottomissione, annientamento e stigmatizzazione, soprattutto perché tale concetto è stato poi rielaborato dalla fenomenologia religiosa, determinando che l’uomo non abbia alcun merito.
Però ogni fede è una tensione dai risvolti ossessivi, maniacali, sanguigni e fanatici, per questo un fedele è dis-umano; perché credere gli permette di oltrepassare ogni limite convenzionale, infine trovando approdo nella volontarietà anche di obumbrare ― senza più prestarsi a romanzamenti dagli esiti vanitosi.
“Puoi credere nel buio / quando la luce mente”, direbbe Montale; ma quando sarà tutto detto e scritto, neanche al Male importerà abbastanza di sputare nel fango.
“Allora Salomone disse: «Il SIGNORE ha dichiarato che abiterebbe nell'oscurità! Ho costruito per te un tempio maestoso, un luogo dove tu abiterai per sempre!»” ― 1 Re; 8:12 - 13
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