Eliot: spersonalizzazione poetica e individualità dell’autore
Vignetta di Fabio Tamborrino

Eliot: spersonalizzazione poetica e individualità dell’autore

diLucio Macchia

Uno dei tratti dominanti della poesia moderna, ovvero della poesia emersa da Baudelaire in poi, è la sua spersonalizzazione «nel senso che la parola lirica non scaturisce più dall’unità di poesia e persona empirica […] Baudelaire è un uomo completamente ripiegato su se stesso. Eppure quest’uomo rivolto a se stesso, quando compone poesie, guarda appena al suo Io empirico»[1]. Certamente il poeta attinge dall’esperienza, dal vissuto individuale della sua «esistenza lacerata»[2] ma la sua ricerca si approfondisce ben oltre i dati fattuali dell’esperienza personale normalmente intesa, alla ricerca di eventi che la oltrepassano. T. S. Eliot, nel suo famoso saggio Tradizione e talento individuale[3], ci mostra come questo oltrepassamento avvenga lungo due direttrici di spersonalizzazione: una di natura “filogenetica”, collegata alla tradizione e agli aspetti collettivi; e l’altra di natura “ontogenetica”, riferita invece agli aspetti individuali e intra-individuali. Nel precedente articolo[4] abbiamo analizzato il versante filogenetico. Rivolgiamoci ora all’aspetto “ontogenetico”, che attiene al «rapporto tra componimento poetico e autore»[5]. Eliot si rivolge a questo aspetto nella seconda parte del saggio. Il suo movimento si snoda dalla metafora chimica del catalizzatore, il filo di platino che facilita la reazione tra sostanze, pur non prendendone materialmente parte, pur non entrando come componente del composto finale: «La mente del poeta è il filo di platino»[6]. Con questo, E. vuole intendere che, nella creazione poetica, la capacità dell’artista è quella di mantenere separati il materiale poetico di base dalla mente, il cui ruolo, sicuramente centrale, è quello di favorire la trasformazione di quel materiale in una nuova sostanza, che è la poesia. Il materiale di base è costituito dall’universo dei sentimenti e delle sensazioni del soggetto-autore, e quindi il suo percepito, la sua lacerazione esistenziale, le ascese e cadute del suo vissuto. «In sostanza la mente del poeta è un ricettacolo che raccoglie e conserva innumerevoli sensazioni, frasi, immagini, che restano lì finché non sono presenti tutte le particelle atte a unirsi per formare un nuovo composto»[7]. Il materiale così accumulato non ha, di per sé, un immediato significato poetico, che può acquisire solo subendo le “trasformazione chimiche”. Queste ricombinazioni di esperienze possono dar luogo a veri e propri “inserti” nel tessuto poetico che derivano da esperienze vissute in contesti differenti, in una frammentistica violazione di ogni unità di tempo e spazio. Eliot, in Terra desolata, utilizza questa tecnica inserendo frammenti di conversazioni, richiami a luoghi, scorci visivi provenienti dalla memoria. Attinge al bacino di esperienze con la stessa modalità con la quale attinge dalla letteratura del passato. A questo proposito è interessante l’esempio dantesco portato da E. nel saggio, con riferimento agli ultimi versi del canto di Brunetto Latini, in cui Dante, secondo Eliot, preleva in modo discontinuo, dalla sua memoria, l’immagine del podista a Verona[8]. Questa trasformazione della materia esistenziale, si presenta come una vera e propria transustanziazione nella quale ci sovviene lo Stephen del Dedalus «sacerdote dell’eterna immaginazione, che trasfigurava il pane quotidiano dell’esistenza nel corpo radioso di una vita imperitura»[9]. Il poeta-catalizzatore è il sacerdote che officia questo sacramento di cui però non governa pienamente le forze. Egli, almeno fino ad un certo grado, si affida a esse: «il poeta ha non una “personalità” da esprimere, ma un mezzo particolare, che è soltanto un mezzo e non una personalità, in cui impressioni ed esperienze si combinano in modi particolari e imprevisti»[10]. Non stupisce che, verso la fine del saggio, E. citi il De anima di Aristotele, in un passaggio in cui viene detto che la mente è qualcosa di divino, una sorta di sostanza intoccata, inalterabile. Qui E. si rende conto di essersi spinto «alla frontiera della metafisica o del misticismo»[11]. Il suo ragionamento sembra infatti suggerire che il gesto poetico tenti di connettersi a questa componente “divina”, facendo rifulgere i sentimenti e le sensazioni e consentendone la trasformazione e l’arricchimento fino alla possibilità di una significazione universalizzante. Questo viene fatto affidandosi, con processi alogici e inconsci, al processo creativo, ma senza perderne, d’altra parte, la lucida presa mentale, in modo tale che la catalizzazione del materiale vitale riesca a trasformarlo in modo artisticamente rilevante, e non vada invece della direzione di inerti e insignificanti sfoghi sentimentali, diaristici. In cosa, allora, consiste concretamente la poesia? Sicuramente – sembra risponderci Eliot – in “nulla di personale”, in una espressione, tecnicamente vigilata, di un sentimento che lui chiama significativo, «un sentimento che ha vita nella poesia  e non nella storia del poeta»[12].E. lo sintetizza magistralmente nella frase chiave della seconda parte del saggio: «Nello scrivere poesia, c’è molto di cosciente e premeditato. Anzi, il cattivo poeta è di solito incosciente laddove dovrebbe essere cosciente, e cosciente dove dovrebbe essere incosciente. Tutti e due gli errori tendono a farlo “personale”. La poesia non è un libero sfogo di sentimenti ma un’evasione da essi; non è espressione della personalità ma un’evasione dalla personalità»[13] Infatti, essere cosciente quando dovrebbe essere incosciente, significa, per il poeta, perdere la scintilla “divina” della creatività, flettere sulla storia personale, sul didascalico. Allo stesso tempo, essere incosciente dove dovrebbe essere cosciente, determina la mancata presa della mente sul materiale informe, che rischia di sgorgare caoticamente riproducendo i moti disordinati dell’interiorità soggettiva. Emerge il quadro di un complesso gioco di conscio e inconscio, di apollineo e dionisiaco, di intuito e ragione, che è il grande gioco della creazione artistica, in cui il poeta muove i suoi pezzi e ne viene mosso. Dice la parola e, al contempo, inevitabilmente, ne viene ecceduto. In questo contesto, il “successo” poetico si colloca precariamente sulla linea sottilissima d’equilibrio tra questi versanti opposti. Rasenta l’impossibile. Lo sfida.

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[1]   H. Friedrich, La struttura della lirica moderna, Garzanti 2016 (prima ed. originale 1956) p. 35-36.

[2]     T.W. Adorno Discorso su lirica e società (testo tratto da una conferenza del 1957) citato da A. Berardinelli nel suo saggio Le molte voci della poesia moderna, pubblicato in appendice al testo citato di Friedrich, p.346.

[3].    Il saggio è del 19 19: mi sono riferito all’edizione italiana contenuta in T.S. Eliot, Il bosco sacro, saggi sulla poesia e la critica, traduzione di V. Di Giuro e A. Orbetello (Bompiani 2016).

[4].    L’articolo è Eliot: spersonalizzazione poetica e tradizione.

[5].    Ibid. p. 74.

[6].     Ibid. 

[7].    Ibid. p. 75-76.

[8].    Poi si rivolse, e parve di coloro / che corrono a Verona il drappo verde / per la campagna; e parve di costoro / quelli che vince, non colui che perde (Inferno, XV).

[9].    J. Joyce, Dedalus (trad. di C. Pavese) vers. Kindle (Crescere Edizioni) p. 242.

[10]    Eliot, op. cit. p. 77.

[11]    Ibid. p. 79.

[12]    Ibid. p. 80.

[13]     Ibid. p. 79.


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