Eliot: spersonalizzazione poetica e tradizione
Uno dei tratti dominanti della poesia moderna, ovvero della poesia emersa da Baudelaire in poi, è la sua spersonalizzazione «nel senso che la parola lirica non scaturisce più dall’unità di poesia e persona empirica […] Baudelaire è un uomo completamente ripiegato su se stesso. Eppure quest’uomo rivolto a se stesso, quando compone poesie, guarda appena al suo Io empirico»[1]. Certamente il poeta attinge dall’esperienza, dal vissuto individuale della sua «esistenza lacerata»[2] ma la sua ricerca si approfondisce ben oltre i dati fattuali dell’esperienza personale normalmente intesa, alla ricerca di eventi che la oltrepassano. T. S. Eliot, nel suo famoso saggio Tradizione e talento individuale,[3] ci mostra come questo oltrepassamento avvenga lungo due direttrici di spersonalizzazione: una di natura “filogenetica”, collegata alla tradizione e agli aspetti collettivi; e l’altra di natura “ontogenetica”, riferita invece agli aspetti individuali e intra-individuali. Concentriamoci qui sul primo aspetto, che possiamo riassumere così: la scrittura poetica ha una natura spersonalizzata perché il poeta non può che inserirsi all’interno di una tradizione, di un movimento collettivo, sovrapersonale. Ciò che Adorno chiama una «corrente sotterranea collettiva»[4]. Il gesto poetico non è collocabile al di là della storia della cultura. Certo, osserva E., il suo valore verrà misurato dalla sua originalità, dalle novità del suo discorso in rapporto al passato, ma in fondo tale originalità non è altro che un modo interessante di inserirsi nella tradizione: «Se invece noi ci accostassimo a un poeta senza alcun pregiudizio, spesso ci accorgeremmo che le parti non solo migliori ma anche più personali della sua opera sono forse quelle in cui i poeti scomparsi, i suoi antenati, dimostrano con maggior vigore la loro immortale vitalità»[5]. Qui non c’è un’apologia dell’imitazione o del conformismo in poesia. Ma ben altro. Eliot ci pone di fronte a una verità dell’arte lirica (e dell’arte in generale): è impensabile “dire la propria” prescindendo da una consapevolezza autentica del passato, che renda capaci di farsi alveo per venire attraversati dal fiume filogenetico del poetico, di divenire un anello, più o meno importante, di quella catena di creazione che si snoda nei secoli. Per E. un artista si colloca nella sua contemporaneità soltanto grazie a un profondo senso storico che gli consente di integrare l’appartenenza alla sua generazione con la consapevolezza che «tutta la letteratura europea da Omero in avanti, e all’interno di essa tutta la letteratura del proprio paese, ha una sua esistenza simultanea e si struttura in un ordine simultaneo»[6]. Questo significa essere “tradizionale”: sovrapporre la dimensione storica a quella del presente. Viverle insieme e in modo così interconnesso che il gesto dell’artista contemporaneo, afferma E., va a modificare l’ordine della storia passata. Il Dante inserito da Eliot in Terra desolata cambia la nostra visione di Dante: E. sovrappone uno scenario de L’inferno alla moderna Londra, compiendo un gesto che lo collega alla tradizione non in modo semplicemente passivo (la citazione tout court) ma introducendo il contemporaneo come sguardo nuovo sul passato che del passato stesso scopre un elemento di atemporalità che attraversa la storia, che giunge alla scrittura presente. Così si è “innovativamente tradizionali”. Non una passiva ripetizione del passato, ma neanche il suo annullamento, una sorta di sterile reset che non condurrebbe a nulla. Invece, un respiro ampio in cui passato e presente si illuminano vicendevolmente. Sovviene Agamben: «La contemporaneità si iscrive, infatti, nel presente segnandolo innanzitutto come arcaico e solo chi percepisce nel più moderno e recente gli indici e le segnature dell’arcaico può esserne contemporaneo. Arcaico significa: prossimo all’arké, cioè all’origine»[7]. Eliot concepisce quindi la «poesia come unità vivente di tutta la poesia che sia mai stata scritta»[8]. Il singolo poeta implicitamente si spersonalizza nell’accettarsi parte di questa corrente letteraria a cui deve necessariamente connettersi, in una forma però appunto “viva”, quindi non attraverso una pratica di conformismo o una sterile erudizione. In fondo, la ricerca stessa del suo stile coincide – per il singolo poeta – con l’individuazione del suo percorso di inserimento nel flusso filogenetico del poetare. Il dono che il poeta nel presente porta a questo movimento temporale è, secondo E., la consapevolezza del passato che il passato non poteva avere. Il suo arricchimento è soprattutto nella chiave dell’ampliamento della consapevolezza universale. Non vi è un “progresso” inteso come avvicinamento incrementale a una presunta meta di conoscenza. Vi è piuttosto un arricchimento di strumenti e di stili, di modalità di espressione. Il poeta si colloca in questa ricerca, nella coscienza che lo spirito del suo tempo è «in continuo movimento, ma che tale movimento è fatto in modo tale che nulla viene abbandonato en route, che né Shakespeare né Omero e neppure gli artisti del periodo Magdaleniano vanno mai in pensione»[9]. Vi è, in conclusione, una spersonalizzazione del poeta che risiede nel suo auto-sacrificarsi al phylum, alla specie, ovvero alla tradizione, piuttosto che concentrarsi unicamente sulla sua identità ed esperienza presenti. Ma tale sacrificio non è rinunciatario. Piuttosto, esso contribuisce a costituire l’essenza stessa del gesto poetico, come gesto di corrispondenza e intesa con altri gesti. Come universalizzazione dell’esperienza del singolo nella viva rete delle interconnessioni che costituisce la cultura.
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[1] H. Friedrich, La struttura della lirica moderna, Garzanti 2016 (prima ed. originale 1956) p. 35-36
[2] T.W. Adorno Discorso su lirica e società (testo tratto da una conferenza del 1957) citato da A. Berardinelli nel suo saggio Le molte voci della poesia moderna, pubblicato in appendice al testo citato di Friedrich, p.346
[3] Il saggio è del 1919: mi sono riferito all’edizione italiana contenuta in T.S. Eliot, Il bosco sacro, saggi sulla poesia e la critica, traduzione di V. Di Giuro e A. Orbetello (Bompiani 2016)
[4] Adorno, op. cit. p. 348
[5]. Eliot. Op. cit. p. 68
[6] Ibid. p. 69
[7]. G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo? (Nottetempo, 2008), vers. Kindle, Pos. 116
[8]. Eliot. Op. cit. p. 74
[9] Ibid. p. 72
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