Emily Dickinson: libertà che in noi dimora
Vignetta di Fabio Tamborrino

Emily Dickinson: libertà che in noi dimora

diMonica Silvestrini

Ha lasciato un’infinita scia, visibile ovunque. Basta spalancare gli occhi. 

Come da un’immensa piazza circolare, dal suo nome si irradiano vie, alcune ben tenute e trafficate, altre meno, altre ancora completamente sterrate, invase da natura selvaggia, che si interpone tra indagine e verità. Eppure sento, questa mia introduzione alla poetessa, ancora debole, ancora in difetto. Forse perché qualsiasi via si prenda, ella è già lontana, e scompare, nei suoi presunti abiti bianchi, bianca nella notte, e lieve, e fuggitiva, come una farfalla. 

Ma quanto il tempo, che non è tempo misurabile in lei, l’aveva vista crescere e cambiare! Da giovane e vivace, quando si sentiva a suo agio con le persone, tanto da definirsi sempre più carina, la futura “Belle di Amherst”, alla poetessa che decise di vivere dentro sé stessa.

Di questo comunque non dovrebbero peccare coloro che la vorrebbero far rivivere sugli schermi: di lasciarsi ingabbiare da fragilità e malattia. Questo non è Emily Dickinson. E’solo una scorciatoia, come quando si definisce il genio Leopardi “un pessimista”. Scostandoci da eresie intellettuali, vogliamo invece davvero immergerci nel suo mondo. Una gioventù comune a quella delle altre ragazze, la sua. Casa, scuola, chiesa. E naturalmente, le passioni, come il pianoforte, e già da fanciulla, l’amore per la natura.

Emily frequentò la Amherst Academy per sette anni. Eccelleva in latino, che userà per nominare le sue piantine, quelle del suo Herbarium privato. Per un anno studiò al Mount Holyoke College, del quale suo nonno paterno fu uno dei fondatori. Disse di amare gli esperimenti scientifici in laboratorio. Ma amava anche i suoi insegnanti. All’Accademia erano giovanissimi ed erano soliti lodarla, accadeva davvero spesso. E molto presto e spesso ella iniziò a scrivere: lettere e lettere, ad amici, amiche, ai suoi cari. Molte erano già poesie, altre più colloquiali, ma mai scritti imprecisi o poco corretti. La poetessa mostrava un fitto impegno in tutto ciò che faceva. 

Nacque nel 1830 ad Amherst, cittadina a un paio d’ore di distanza da Boston, se viaggiamo in treno. Forte era lo spirito religioso e comunitario della piccola città. Ma erano anche i tempi in cui la fede cristiana veniva scossa dalle teorie darwiniane. Emily ricevette la Bibbia a tredici anni, un dono del padre avvocato. E nella sua casa, come in altre dimore di fedeli, si tenevano riunioni religiose. Lei stessa amava ascoltare i sermoni, come quelli affascinanti di padre Park. Eppure, quando tutti i membri della sua famiglia fecero professione di fede, lei si rifiutò. Disse di amare troppo il mondo per potersi focalizzare solo su Cristo. Eppure c’era in lei, e la si sente, tonante, nelle sue poesie, una tensione verso l’oltre, nel suo sporgersi arditamente oltre il limen. Un’attrazione e una fede  religiosa per l’infinito, il non visto, desiderato e temuto, per questo amato suo personalissimo Dio tailor-made, e fonte inarrestabile di ispirazione. 

“Faith” is a fine invention                                    

For Gentlemen who see!                                  

But Microscopes are               

Prudent

In an Emergency! 


La Fede è un’invenzione sottile

Per gli uomini che vedono!

Ma i microscopi sono

Prudenti

In Emergenza!


    Fu anche sofferente testimone di diverse morti, la giovane Emily, di amici vicini e lontani, premature morti di cugini, come Sophia Holland, che morì a soli quindici anni, nel 1844. La Morte. Nel flusso ininterrotto della sua poesia, la Morte che ella teme e la Morte, che nella stessa Vita, lei stessa vive. E tutte queste morti, per divenire poesia, devono avere trovato luoghi e tanta terra fertile in quell’anima nel sogno, che la poetessa possedeva. A chi come lei vive di meraviglia, basta pochissimo infatti per sentirsi inondati dall’oceano e riemergere alati, dal vento sospinti. 

There's a certain Slant of light,

Winter Afternoons –

That oppresses, like the Heft

Of Cathedral Tunes –


Heavenly Hurt, it gives us –

We can find no scar,

But internal difference –

Where the Meanings, are.


C’è una certa inclinazione della luce

Pomeriggi d’inverno-

Che opprime, quanto il peso

Delle melodie nelle cattedrali


Ferita celeste, provoca

Non vediamo cicatrice

Ma interiore differenza-

Là dove sono i Significati


E’ il Sublime. Un dono per il quale non salderemo mai debito, una via di salvezza per le anime che si perdono. La via che tutti i sensi cantano.

E tutti quei canti luminosi che la Dickinson scrisse, che ella stessa raccolse in vita in fascicoli, affinché avessero probabilmente un destino, là dove lei guardava, si facevano scorgere, e guidavano la sua mano sottile, di notte, alla fioca luce del suo angolo, nella sua stanza.

Quella luce accesa, dalla finestra al primo piano, accendeva la notte della Poesia.

Aveva iniziato a scrivere poesie fin dall’infanzia, ma quelle affascinanti concise e universali composizioni  risalgono, per la maggior parte, agli anni 1858-1865. E controversa era la sua reazione post scrittura: raccoglieva le poesie, le teneva segrete, ma le inviava anche talvolta ad editori di riviste per giovani scrittori, come Thomas Higginson.

Le ferite d’amore e di morte versavano sangue nei versi. Lasciarono questo mondo i suoi genitori, e poi il nipote Gilbert a soli otto anni. A quel tempo Emily Dickinson viveva da reclusa nella sua stanza, di nuovo nella sua Homestead, accanto alla quale sorgeva The Evergreens, la dimora di suo fratello Austin e di sua moglie Susan. I due solevano invitare amici. Incontri e feste alle quali la stessa Emily aveva preso parte in un passato ormai lontano. Quella Homestead, dove aveva conosciuto gli uomini della sua vita, vita poetica coincidente con quella vera, come Benjamin Newton, che ella definì “the first of my own friends” e  “a gentle, yet grave Preceptor” e ancora “an elder brother, loved indeed very much”, che visitò Amherst a ventisei anni, nell’autunno del 1947. Come Samuel Bowles, editore dello Springfield Republican, il più influente giornale della Nuova Inghilterra, mentre il magico incontro con Charles Wadsworth era avvenuto a Filadelfia, dove egli fu Minister alla Arch Street Presbyterian Church. Fu lui, forse, il Master delle amorevoli lettere. Sembra che i due si videro due volte ancora, la corrispondenza tuttavia fu fitta, come la scrittura della Dickinson, che pareva straordinariamente ispirata.


E se di amore si intende trattare, allora Otis Lord, giudice, dapprima sposato e poi vedovo, fu fiamma ardente nella vita della poetessa. Sono amori non totalmente documentati, nomi che vivono in lettere e diari, in eventi narrati e riportati. Sono attimi che hanno nutrito un’anima sensibile e universalmente aperta, che aperte e irrisolte lascia anche le nostre domande. Proprio quello che la poesia ci chiede di fare, anche e soprattutto, la Sua poesia.

Decise di trascorrere nella sua stanza gli ultimi venti anni della sua vita. E ancora oggi, ogni docente, ogni studente, ogni suo lettore, studioso, estimatore, sta in quella domanda. Cosa la spinse a quella scelta? Fu fuoco all’inizio, un incendio d’anima, un trauma? Ne aveva fatto accenno, senza dare spiegazioni. Sofferenza e pene d’amore? Fisica sofferenza? Nulla qui si esaurisce. Ci piace pensare, invece, che la sua, sia stata una scelta di libertà, che la sua mente alata, la sua anima, potesse aspirare ad altro, all’altro Suo, varcando quei confini materiali, che la imprigionavano. Paradossalmente. Come recitava John Donne, rivolgendosi a Dio in uno dei suoi sonetti: “se tu non mi fai schiavo, mai io potrò essere libero”. Lei, che mai fu schiava del proprio Dio, che incontrava, in ogni luogo, dove la sua mente la portava.

Leggeva la Bibbia, privilegiava letture di autrici inglesi, e tutto veniva partorito, nuovamente, dopo aver transitato nella sua mente. E, considerata la sua produzione tutta, forse una poesia, piccola e leggera, la può rappresentare più di altre:


To make a prairie it takes a clover and one bee,

One clover, and a bee.

And revery.

The revery alone will do,

If bees are few.


Basta davvero poco per essere felici. Non chiedono i nostri occhi di godere di eccesso, di colori accesi. E’ la natura stessa che custodisce il segreto. Immediatezza – Unicità. Il resto, lo creeremo noi

con il Sogno, l’Immaginazione. Ciò che la Dickinson chiama revery, scritto minuscolo, eppure parola centrale (forse perché pensata accessibile a tutti? per sottolineare il suo essere Cosa della Vita?).

Viene allora naturale chiederci come reagirebbe oggi la poetessa all’invito costante all’alienazione, alla spinta non disinteressata a non godere di ciò che vediamo ma ad ignorarlo, invece, per varcare dimensioni finte e virtuali, che uccidono i sensi, generando uno stupore malsano e pericoloso. Forse   uscirebbe dalla sua stanza, vestirebbe di nero e lascerebbe ai posteri pagine bianche di protesta, in funerea stupefazione di fronte allo sterminio di anime. 

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