Infondabilità del gesto poetico
Nel mio precedente articolo ho parlato della poesia come “gesto di rivolta” alle narrazioni correnti, alle sovrastrutture del discorso della tecnica. Il poetico reagisce a ciò che Adorno e Horkheimer definiscono “dialettica dell’illuminismo”. I due pensatori leggono, nella storia del pensiero occidentale (non solo del periodo illuministico stricto sensu) il progressivo affermarsi della ragione sulla natura: una rivoluzione che prima libera l’uomo, e poi l’aggioga, lo sottopone al suo stesso metodo. Il rischiaramento si è rivelato, nel tempo, così forte da accecare ogni sguardo antico, cancellando – insieme alle tenebre – ogni sfumatura, e alienando l’umanità in una condizione di asservimento alla tecnica, di rimozione dei codici umani profondi. La poesia moderna (ma anche l’arte in generale, e parte del pensiero filosofico) tenta un ritorno, un recupero di uno sguardo altro sull’umano. Con le parole di Adorno: «L’idiosincrasia dello spirito lirico nei confronti del predominio delle cose è una forma di reazione alla reificazione del mondo, al dominio della merce sull’uomo, che dall’inizio dell’era moderna si sono estesi e dall’epoca della rivoluzione industriale si sono allargati a potere dominante della vita». Si cita Adorno per ribadire un concetto già più volte espresso e, soprattutto, per andare più in là nella sua riflessione sulla poesia, seguendo il suo percorso filosofico in essa, e ponendolo in relazione con il problema della intrinseca “infondabilità del poetico”. Il filosofo francofortese si interroga sull’efficacia del dire poetico. Quando la poesia è tale? Il suo movimento di pensiero è preciso e illuminante: «Il contenuto di una poesia infatti non è solo l’espressione di affetti ed esperienze personali. Essi attingono l’arte solo se arrivano ad avere parte nell’universale grazie alla loro specifica forma estetica. […] Ciò che solleva la poesia lirica all’universale è l’immersione in una realtà individualizzata». In altre parole, al poeta non basta, naturalmente, parlare di se stesso. La confessione intima, il diario, sono risorse personali che solo con grande perizia e attraverso molteplici difficoltà possono essere distillate in parola poetica. Perché la cosa funzioni, il poeta, parlando di se stesso, immergendosi nel suo sentire più intimo, deve essere in grado di disvelare un contenuto che abbia una valenza universale. Ma, nel compiere questo processo, non ha alcuno strumento di oggettivizzazione: non ha scienza, non ha tecnica. I suoi strumenti non conoscono manuali, metodologie, calcoli. Non vi è, per il poetico, un Discours de la méthode. Il tentativo lirico è, quindi, intrinsecamente complesso, affidandosi alla possibilità di giungere all’Altro mediante un linguaggio non codificato, non certo. Come un gesto sacro dell’uomo all’uomo, comprensibile attraverso canali di una misteriosa corrispondenza. Da qui il tentativo arrendevole, di tanta poesia, di “farsi tecnica”, di raggiungere una valenza comunicazionale oggettiva, liberandosi da ogni oscurità. Ma non a quella poesia ci si riferisce adesso, perché essa è già il risultato di un piegamento, di una rinuncia. È invece nell’insistenza a voler perseguire il tentativo di una individuazione universalizzante che si colloca l’essenza di un autentico dire poetico. Ma questo approccio apre un orizzonte irriducibilmente problematico: non offre garanzie, ma soltanto incertezze, e pericoli. Ancora Adorno: «ma il rischio specifico al quale essa si trova esposta deriva dal fatto che il suo principio di individuazione non garantisce mai risultati normativi e autentici. La lirica non ha alcun potere che le dia certezza di non restare nella casualità della mera esistenza lacerata».
Questa la “infondabilità”: non vi è un riferimento oggettivizzante per il gesto poetico, che si presenta sempre straniante, persino agli occhi dell’autore. Il poeta si getta nel buco nero del linguaggio (mutuando una famosa immagine di abissalità heideggeriana) nella fede nell’esistenza di un passaggio che lo conduca nell’universo parallelo degli altri uomini – dei suoi lettori. Ma il suo volo può essere vano, icariano, e conoscere solo la tragicità della sua esistenza. Ogni scrittore di lirica sa questo, persino i grandi. Negli scritti di Celan si avverte questa conflittualità profonda. Il poetare è perciò più che mai un “tentare”, nel senso etimologico di “toccare” la superficie viva dell’essere, al di là delle consuete rappresentazioni, dei riduzionismi. Un protendersi – bendati – alla sostanza del mondo.
Adorno si spinge nel ragionamento fino al punto da sostenere che «una corrente sotterranea collettiva fonda tutta la lirica individuale». Vi possiamo scorgere una interconnessione profondissima di voci umane in mutua risonanza, legate dai «rudimenti linguistici e psichici di una condizione» che viene definita, con una meravigliosa illuminazione, «pre-borghese nel senso più ampio», e a cui infine Adorno si riferisce in termini di «dialetto». Non si ha pretesa di analizzare tutte le conseguenze di un tale approccio ma, sicuramente, questa idea di una “corrente sotterranea” è estremamente suggestiva e dà conto di quel substrato comune, di quella interna coesione e risonanza che vibra attraverso il corpo della moderna lirica. Da poema a poema. Da verso a verso. Da tentativo a tentativo. Nel denominatore comune di quella “rivolta” di cui già si è parlato. Non una soluzione del problema (che soluzione non ha) dell’infondabilità, ma, forse, una sua mitigazione. Si può infatti ritenere che il poeta, “sostenuto” dalla corrente sotterranea, riduca il peso esistenziale del suo isolamento, radicato nella mancanza di riferimenti certi e nel conseguente costante rischio di smarrimento. Riecheggia Apollinaire: «Rotaie che legate strette le nazioni / Noi siamo soltanto due o tre uomini / Liberi da ogni legame / Diamoci la mano».
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[1] T.W. Adorno «Discorso su lirica e società» (testo tratto da una conferenza del 1957) citato da A. Berardinelli nel suo saggio «Le molte voci della poesia moderna», pubblicato in appendice al testo di H. Friedrich, La struttura della lirica moderna, Garzanti 2002 (prima edizione originale 1956) – tutti i virgolettati con caporali hanno questa fonte, tranne la citazione di chiusura (di Apollinaire).
[2] Da Legami di G. Apollinaire, 1918 - Traduzione di Sergio Zoppi
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