POESIA E MALATTIA “DE LA TÊTE”
Qualche anno fa mi sono imbattuta in una silloge dal titolo “Poesie di un maledetto” di un poeta quasi sconosciuto che si chiama Mario Scalesi. L’edizione che mi è capitata tra le mani è a cura di Salvatore Mugno, Edizioni Il Grappolo e risale al 2006. Mario Scalesi è nato a Tunisi nel 1892 da genitori italiani e all’età di cinque anni subisce un terribile incidente che lo renderà invalido per tutta la vita: un’infelice caduta dalle scale che gli spezzerà la colonna vertebrale costringendolo a passare il resto della vita su una carrozzina. La sua salute sarà da allora compromessa e inizierà ad essere spesso ricoverato fino ad approdare alla Vignicella, manicomio di Palermo dove morirà per “marasmo”, ovvero grave deperimento fisico, nel 1922, come si legge nelle cartelle cliniche. Sarà poi gettato in una fossa comune. Lui stesso, come una incredibile premonizione, scriverà: “dormire tra i dormienti dimenticati, da qualche parte, sottoterra”.
Già a Tunisi aveva collaborato come critico letterario su alcune riviste come “Soleil” o la “Tunisie Illustrée” e iniziò a scrivere poesie in francese che verranno pubblicate postume e che saranno accolte con favore dalla critica francese già dagli anni Trenta. È considerato il “padre” della letteratura maghrebina anche perché ha sempre combattuto per l’affermazione dell’originalità della cultura algerina rispetto alla madre patria francese.
Mario Scalesi era bellissimo. Moro, occhi profondi, sguardo triste e severo. Nella poesia “L’accident”, Scalesi racconta che una sera di Natale, che pareva piuttosto un Aprile, andò a prendere al piano di sopra delle carte da gioco e, tornando di sotto, a causa della scala poco illuminata, scivolò spezzandosi la schiena per sempre. Per qualche motivo facilmente comprensibile, la scala gli diventa da quel giorno essenziale, con essa si crea inevitabilmente un legame indissolubile:
L’instant où j’ai cessé de vivre,
Je le verrai longtemps encor.
(Quand l’espoir a fermé son livre
On peut bien dire qu’on est mort).
L’attimo in cui cessai di vivere
Per lungo tempo ancora rivedrò.
(Chiuso il suo libro la speranza,
sicuri si è d’essere morti).
…
Je sens fuir me pensées malades
Vers lìescalier où je suis mort.
Fuggono i miei guasti pensieri
Lungo la scala dove sono morto.
(traduzione di Salvatore Mugno)
L’anima rimane sempre nel luogo in cui si è separata dal suo corpo mortale, almeno finché non riesca a placare il suo dolore e possa finalmente riposare.
Viene da chiedersi quanto poesia e sofferenza siano tra di loro strettamente legati, quanto un evento drammatico possa generare una lacerazione interna da cui in qualche modo si distillano parole che altrimenti non sarebbero mai pronunciate.
Scrive in francese Mario Scalesi, e forse questo potrebbe essere avvertito come un limite all’interesse del pubblico italiano verso la sua poesia ma fortunatamente la sua opera è stata nuovamente pubblicata nel 2020 da Transeuropa sempre con la traduzione e la cura di Salvatore Mugno. Con estrema dedizione, Mugno si fa portavoce della poesia di un uomo che, di madre maltese-sarda e padre siciliano, non può non dirsi in qualche modo anche italiano.
La passione di Mario per la poesia e la sua intensa attività di critico letterario vengono considerate dalla famiglia come manifestazioni della sua eccentricità, interpretata evidentemente come causa delle sue sofferenze e dei suoi disturbi. Il fratello parla dunque di malattia “de la tête” come motivo del trasferimento a Palermo. In realtà, si legge sempre nella cartella clinica della Vignicella, Mario Sclaesi soffriva fondamentalmente di “morbo di Pott” ovvero una tubercolosi extrapolmonare, che lo rese sempre più invalido e che dovrebbe essere la stessa tubercolosi, come dice Pietro Citati, ad aver afflitto il nostro Leopardi. Anche Scalesi divenne presto gobbo.
La donna è un tema ben delineato nella raccolta: la madre, la sorellina morta a sette mesi e diverse figure femminili indistinte, dagli “occhi perversi”, dai capelli che “odorano di zagara del Paradiso”, dalla “testa dai pensieri viperini” o “dagli occhi di carbone in cui ardeva l’Italia”. È molto probabile che Scalesi non abbia mai avuto alcuna relazione reale con l’altro sesso.
La donna, d’altronde, gli sfugge come la vita:
Alors – geste instinctif du blessé qui chancelle –
Ma main s’est appuyée à ton épaule frêle.
Et tu m’as repoussé.
Tu riais. Je crus voir que le roses mouraient, que le ciel était noir.
Et je compris soudain que c’était toi, la Vie,
Par mon âme implorée et san fin poursuivie
Depuis mon premier rêve et mes premiers instants.
Allora – istintivo gesto del ferito che vacilla –
La mia mano s’è appoggiata alla tua spalla delicata.
E tu mi hai respinto.
Tu ridevi. MI sembrò di vedere,
che le rose morissero, che il cielo s’oscurasse.
E compresi d’un tratto che eri tu, la Vita,
da me implorata e senza tregua inseguita,
fin dal mio primo sogno e dagli iniziali respiri…
(traduzione di Salvatore Mugno)
Poeta maledetto, come lo definirono i critici che si occuparono della prima edizione postuma, ma dalla indubbia originalità e soprattutto non del tutto affine ai simbolisti nel loro disprezzo per le luci della ribalta, ma maledetto in vita perché rinnegato e scansato, deriso ed escluso, e quindi piuttosto in riferimento alla maledizione della stessa condizione umana, come sapientemente scrive Mugno.
Un poeta da non dimenticare.
Come lui stesso confessa ad un amico poeta parlando di quelli che lo hanno ignorato e maltrattato: “un giorno mi ammireranno e sapranno ciò che ero e ciò che hanno fatto di me”.
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