Maria Liscio
Foto di Elio Scarciglia

Maria Liscio

diPiergiorgio Viti

Una voce colta e appartata. È quella di Maria Liscio, tra le più limpide del Novecento, che ha quasi sempre pubblicato per piccole case editrici, rivelando però, in ogni silloge, un talento straordinario. Pugliese di origine, nata nel 1921, la Liscio, dopo essersi laureata contro la volontà materna che l’avrebbe voluta soltanto “diplomata” in quanto figlia femmina, si trasferisce a Perugia, dove svolge la professione di docente di lettere. Sin da giovanissima rivela la passione per la scrittura e, incoraggiata negli anni dell’adolescenza dal prof. Aldo Capitini, coltiva questa vocazione, pubblicando poi, nel tempo, diverse raccolte: “Sopra i silenzi” (Rebellato, 1973, rieditato da Guerra nel 2009), “Ichnusa” (Rebellato, 1975), “Per frammenti di giorni” (Lalli, 1988), “La parola” (Campanotto, 1993), “Come un’inettitudine” (Amadeus, 1995), “Cono d’ombra” (Guerra, 1999), probabilmente la raccolta più notevole, “Resistenza nel mezzo” (Guerra, 2001), “In corpo da commiato” (Guerra, 2004), “A te, di là da venire” (Guerra, 2006), “L’età tarda” (Guerra, 2008), “Infanzia” (Guerra, 2009).

 

Un percorso ricco e articolato, quello di Maria Liscio, che si dilata per oltre trent’anni e quindi difficilmente sintetizzabile in poche righe. Ciò che colpisce di tale produzione è l’assoluta padronanza della lingua, frutto di lavoro certosino, temprato attraverso la lettura dei maestri (tra cui Montale, Bertolucci e Caproni, spesso citati nelle varie raccolte). L’aspetto formale presenta un’eleganza rara, un’alchimia sapienziale tra paratassi e ipotassi, che si muove anche, su un piano del significato, tra detto (metafora) e non detto (silenzio), capace di ammaliare il lettore, con ben pochi confronti nella letteratura contemporanea. Questa tardiva epifania della Liscio va di pari passo con tutti gli interrogativi del caso: come mai un’autrice di tale levatura è rimasta in un “cono d’ombra” (tanto per parafrasare il titolo di una sua silloge)? Come mai, nelle paludi dell’editoria italiana che conta, il suo nome non è mai affiorato? Eppure, già Barberi Squarotti aveva osannato le doti di questa poetessa, sottolineandone tra l’altro una “religiosità severa e profonda”. Certo, c’è anche questo in Maria Liscio, una religiosità che è un’etica dello scrivere, un lavorio continuo, in cui si delineano presenze, anche minime, ricordi, animali, quadri, fiori, alberi, in un universo parlante che, si badi bene, non è bozzettismo, ma panismo, immedesimazione, moltiplicazione all’infinito di sé. Verrebbe poi da dire che Maria Liscio ami talmente il bello in ogni sua forma (da Mozart alla poesia orientale e americana, da De Chirico al fascino della mitologia), così da non poter far altro che dirlo, questo bello, dargli un nome, con i crismi dell’onomaturgia che è, appunto, la fede stessa del poeta (Dire/ per non morire/ un poco almeno/ dire), si legge in apertura “In corpi da commiato”).

 

In questo viaggio trentennale, appare sorprendente, e, per certi versi, un unicum, la raccolta “Come un’inettitudine”, in cui la Liscio, lungi dall’essere poeta-isola, trova nei desaparecidos, nelle vittime della guerra della ex Jugoslavia, nei malati di Aids, un arcipelago in cui speculare le sue sofferenze, che diventano così quelle del mondo. Un’irrequietezza e un’insoddisfazione che non sono solo poesia, ma che puntellano la sua biografia, specialmente negli anni Settanta, quando la Liscio diventa attivista per i diritti delle donne, manifestando come vita e opere qui, in questo caso, viaggino su binari paralleli.

 

Ma questi testi di impegno civile rappresentano un tratto non distintivo della sua poetica, perché, per il resto, pur con slanci e aperture, Maria Liscio privilegia l’intimità, il privato, quella dimensione in cui tutto si cristallizza, si ferma, a tal punto che tra i suoi versi, verrebbe da dire, “agostinianamente più non cade tempo”.

 

Da “Come un’inettitudine” 


Quadrifoglio

 

Finché non lo vidi Grande E proprio vicino a me

che lo cercavo.

La mia fortuna! Così mi affidai alla sorte

e volsi in sorriso la pena segreta.

Quell’attimo bastò quel lampo

per illudere un giorno. Poi

messo e dimenticato dentro un libro

ad altri giorni restò

la cura d’altri improbabili appigli.

 


Pasqua e Vietnam

 

Ci viene incontro

col sorriso

dell’agnello sgozzato

la pasqua di sangue

che non vorremmo spere.

 

Bruciata a napalm

la terra

urla da secche gole

 

e invano s’adopra

a scompaginare

volti

su cui la morte

non mette quiete

        

                   Da sempre

                   sulle porte dell’uomo

                   ardono

                   rosse

                   le tracce dell’ostia.

 


Allo zoo

 

L’orango mi guardava

con occhi di morbido marrone

in una positura accovacciata

di antica umanità, filosofo

pensosamente triste. La carica

della mia simpatia

appresa senza slanci.

Rassegnato al suo lager,

non si aspettava niente

Sfioravano appena

la sua mortificata dignità

le beffe dei ragazzi incitati

dalle risa volgari degli adulti.

 

 

Da Cono d’ombra

 

Non lo sapeva

 

La giovinezza dai caldi capelli

rivolta all’età stanca disse:
Rassegnati   Lo disse con protervia

ma quella non si sdegnò

Si era rassegnata sì

pure si rivedeva tale qual era stata

in quella guancia in quel gesto

regale di baldanza   Era lei (era stata)

quell’arroganza

quel flutto prorompente ridente

lei quella! In lei viveva

anche se l’altra - no -

non lo sapeva

 

 

Da A te, di là da venire

 

Bucato

 

Come l’acqua di un bucato

troppo sporco

buttata nel water

e dopo ributtata e buttata

fino alla limpidezza

così ho fatto con te Poesia

E tu me ne vorrai

perché la limpidezza

ha avuto sempre breve durata

Si era appena asciugato il bucato

che il nero ritornava

con le immagini brute

l’orrore dei ricordi    il sozzume

di cattiveria

Bucato dopo bucato

così ho lavato    E funestata te

Poesia

 

 

All’Elba

 

Velelle  - ci dice il marinaio - noi

le chiamiamo velelle

Le piccole meduse blu

che hanno al centro dell’ovale

come una vela alzata trasparente

Portate dalla corrente

sono a migliaia e migliaia

e sono niente:

così presso la riva

non possono che morire

abbassano la vela

si appiattiscono

nella loro agonia     blu

più del mare

 

Maria Liscio (1921-2021) è nata a Ortanova, in provincia di Foggia e dal 1935 si è trasferita con la famiglia in Umbria, a Perugia. È stata insegnante di materie letterarie nelle scuole di secondo grado e ha pubblicato undici raccolte di poesia, di cui l’ultima nel 2009 con i disegni di Vittoria Maltese Bartolucci, per Guerra Edizioni.




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