A due voci - primo capitolo
Ivor Pricket, Nizal accudito dalla madre (a destra) e da una parente, dopo un episodio di febbre alta. 2014, Accampamento alla periferia di Adana, Turchia

A due voci - primo capitolo

diStefano Patuzzi

La brezza leggera che soffiava verso Chesapeake Bay era di una piacevolezza soffice e rotonda, vellutata persino, in quel crepuscolo di fine maggio. Gli ultimi aromi della primavera, che si attardava piano, danzavano carole con le prime timide fragranze d’estate: e la città sembrava come accarezzata dai lembi svolazzanti di quell’imponente massa d’aria invisibile protesa in poderosa fuga verso l’Atlantico, allungato fino alle calde, sabbiose sponde portoghesi; o al contrario rocciose, in un accesso di rabbia e orgoglio, indecise volubilmente perlopiù tra il giallo pastello e lo zafferano, a picco sullo specchio d’acqua salsa increspato dalle onde ritmiche, frastagliate. Che o si schiantavano sulle falesie, o finivano per frangersi sgraziate sulle spiagge lunghe. Terra e mare – opposti antichi come il mondo – solidità immobile e mobile liquidità: un bacio eternamente abbozzato, sfuggenti labbra acquee che sfioravano continuamente i contorni del viso del pianeta. 

Io, appoggiato con i gomiti al parapetto in cemento e gustando sui polpastrelli e sul palmo il refrigerio dalla bottiglia di birra nella mia destra, mentre il chiacchiericcio e le risate rilassate dei clienti in sottofondo si impastavano con le esuberanti malinconie di un brano jazz; io, dicevo, divoravo con lo sguardo l’immensa fungaia di palazzi diseguali, di appartamenti variamente illuminati e mi figuravo il crepitare della vita. Erano le nove di un giovedì sera, in fondo, e dalla terrazza di quel locale la vista era notevole: un quadro di perfezione urbana, si sarebbe potuto dire.

Il timbro flautato della voce timida, pacata di Mark, fuori campo, mi giungeva come attutito e ovattato: stava intonando una cantilenante melodia con la quale mi chiedeva, a volume basso, se mi fossi perso e io, come fuori di me, mi sorprendevo a rispondere di sì, accennando una volta col capo, lentamente; e sorridevo.

Sorridevo e parlavo senza staccare gli occhi da quell’immensità. Mi ritrovavo ancora una volta a pensare con una curiosità irrefrenabile (puerile forse? o morbosa?) all’immensità di vite in tutti quegli enormi condominii con il loro vorticare di gioie, attese, preoccupazioni della gente là dentro, oltre le finestre, persone che mai avrei potuto conoscere quand’anche avessi vissuto cento vite. Ognuna nella sua storia, con il suo cammino e il suo ruolo nel mondo, il suo sapore della vita i suoi sussulti le trepidazioni le attese i momenti di quiete gli istanti di felicità; per quanto modesta, per quanto apparentemente insignificante o sperduta in quel plastico di cemento e vetri e luci. Mi ero già smarrito a pensare a quanto questa città fosse grande, figuriamoci tutti gli Stati Uniti, figuriamoci il mondo intero, e la nostra galassia, e l’universo, e Dio... 

Già, Dio.

Dio. 

Saggi, i nostri visionari cabbalisti medievali, che lo chiamavano ’En Sof, il ‘Senza Fine’: «Perché in principio, dato che nessuna figura o forma era stata creata, Egli non aveva alcuna forma né somiglianza. È dunque fatto divieto, a chi tenti di figurarselo com’era prima della Creazione, immaginarselo in una qualche forma o figura».  Sante parole. Tanto che io, per cautela, non ci provo neanche un bel po’ dopo la Creazione! Come del resto non mi sono mai spinto, né riuscirei a pensare all’idea di umanità, o anche solamente a quella fetta di umanità che vive qui negli States, o anche solo qui a Baltimore: e questo l’ho sempre trovato meno facile da accettare. Forse chiedo troppo a me stesso, o forse sono pensieri oziosi di una mente abituata a vagare – persino un po’ troppo – nei sentieri scoscesi del pensiero astratto? Non saprei dire.

Ciò che invece sapevo, dai nostri discorsi, era che da questa immensità Mark era assai meno turbato, rispetto a me; Mark non sentiva questa come una distinzione netta, come una cesura; come un abbraccio fecondo, semmai, come un’incarnazione di speranza, lo sconfinato campo d’azione della Grazia e dello Spirito, per citarlo.

Ma sto divagando. 

Dunque ero là, quel giovedì sera, a contemplare con la mente tutte queste cose, la birra gradevolmente fredda nella mia destra, il jazz in sottofondo, con la stessa capacità di comprensione che si può avere al cospetto di un cielo gravido di nubi che stia donando le sue gocce ritmiche e copiose alla terra, ai fiumi, alle pianure, ai tetti lucidi. Sorrise anche Mark e, in silenzio, si avvicinò a sua volta al parapetto per guardare – con uno sguardo che avrei detto amorevole, persino – l’immensità umana che si srotolava e sgretolava senza fine, per ogni dove, sotto i nostri occhi, sotto di noi, sotto il cielo.


Si trattava di uno dei nostri duetti fugaci, punte smussate dei nostri iceberg interiori, bevendo o prendendo una cosa in una pausa, fatti di leggerezza, dischiusi a profondità potenziali; quei momenti in cui eravamo prima di tutto veri, uno di fronte all’altro, i cuori aperti, la mente sorridente, una battuta così come un affondo dietro l’angolo. Mark – o dovrei dire (per chiamarlo come i suoi devoti parrocchiani) il timido, riservato, profondo, buon reverendo Mark Palmieri – era prete ormai da dodici anni, all’epoca; io, rabbino da dieci.


Ricordo ancora il nostro secondo incontro, dopo il primo, piuttosto casuale.

Era il pomeriggio di un mercoledì di novembre e sembrava che il tempo avesse deciso di complottare contro il mondo, o se non altro contro la buona gente dello Stato del Maryland; o perlomeno contro noi due. La pioggia scendeva a scrosci, e – danzando a destra e a sinistra e turbinando e formando suoni poderosi e bagnando – schiaffeggiava gli edifici e torniva, giù in strada, come delle enormi colonne tortili; sui vetri delle mie finestre piccoli rigagnoli continui, diagonali, solcavano tutta la lunghezza dei vetri punteggiati da miriadi di gocce diseguali finite lì chissà come dopo aver roteato nelle chiome spoglie e deluse degli alberi del viale. Vedevo dalla finestra i poveretti che, per una consegna o altro, dovevano abbandonare le loro auto, i furgoni, i camion in sosta; scendevano in fretta riparandosi alla meglio, i più col ‘Sun’, o tirando in alto sulla testa il giubbino o la giacca (uno persino una scatola quadrata, comico, che lo faceva assomigliare a un improbabile robot per bambini d’altri tempi), e sparivano dalla mia visuale per ricomparire una manciata di minuti dopo, di corsa, a riguadagnare in fretta un po’ di caldo e l’interno del guscio dell’abitacolo. Tiravano giù la giacca, o posavano il giornale sul sedile (il robot la scatola, immaginai), un’occhiata nel retrovisore, ripartivano. Gustai la sensazione di benessere dato dal trovarsi all’asciutto, quasi avesse un suo buon sapore e una sua consistenza, mentre scostavo la tendina con la sinistra, curioso.

Stavo dunque prendendo un tè (saranno state le due e mezza) mentre terminavo un articolo di commento alla parashah di tre settimane dopo per una delle riviste con cui collaboravo in quegli anni quando lo vidi arrivare, a piedi, infagottato nell’impermeabile, alto, quasi inseguendo veloce e scomposto e buffo l’ampio ombrello nero che roteava guidato dalle spire possenti del vento.

Fu un piacere vedere quanto gradisse la tazza di tè che gli avevo preparato: la sorseggiò con calma – con esitante devozione, quasi – tenendola con entrambe le mani e tentando di assorbire il calore del liquido ambrato screziato di latte persino in quel modo: quasi per osmosi, si sarebbe detto. Si era liberato con gesti un po’ meccanici dell’impermeabile inzuppato, del cappello, aveva lasciato l’ombrello a sgocciolare nell’angolo in legno laccato vicino alla porta preoccupandosi molto di non bagnare. Prima ancora di poter pensare a come rompere il ghiaccio (cosa che non gli riuscì facile, a quanto vidi), si era lasciato ammaliare dai miei libri, come stesse iniziando, in quel modo, a parlare con me. Pur nella sua timidezza non poteva farne a meno, imparai poi. Agli studi, alle biblioteche e alle librerie era abituato, certo, e me ne avrebbe parlato più volte nei mesi e negli anni a venire; ma vedere così tanti libri in caratteri di cui aveva solo una vaga nozione – mi disse – lo affascinava in un modo nuovo e speciale, e per un poco rimase ammutolito a guardare e a sfiorare con i polpastrelli della sua destra i dorsi marron e oro e corrugati della venerabile distesa del Talmud babilonese, inclinando un poco il capo verso sinistra, talvolta ammiccando come se stesse decifrando o memorizzando (difficile a dirsi) alcuni di quei segni per lui piuttosto arcani; poi cominciò a chiedermi che cosa fosse questo, poi quest’altro, e continuò a vagare con lo sguardo. Dopo qualche minuto si quietò soddisfatto (non senza un piccolo sforzo interiore, mi parve) e al mio invito si lasciò sprofondare lentamente, timorosamente, quasi con un senso di colpa come se non volesse disturbare, in una delle due poltrone in cuoio rosso vivo di fronte alla mia scrivania in legno. Come ho detto era stato tutt’altro che invadente; ma va detto che ebbi semmai l’impressione che, per sentirsi a suo agio, avesse dovuto cedere a un impulso, avesse avvertito la necessità di entrare in contatto con il mio ufficio, di entrare un poco in confidenza, prima ancora che con me, con tutti quei libri che facevano siepe attorno a noi, messaggeri silenziosi e al tempo stesso vocianti di millenni di storia, di dispute accese, di dibattiti a distanza di spazio e di tempo eppure in un presente interminato fra saggi arguti, coltissimi e testardi, talvolta così chiassosi da essere persino tonanti mentre facevano ondeggiare, argomentando, le barbe sagge lisciandole con la mano.

Parlammo all’inizio del più e del meno. Poi – poco alla volta – ci spostammo a parlare della mia famiglia, di mia moglie e mia figlia, e della sua, i Palmieri, originari di un paesino dell’Abruzzo, in Italia. Fu a questo punto che notai, come un carico instabile che si vada assestando sul pianale nell’unica posizione possibile, che più i minuti passavano più la direzione di marcia diventava chiara, definitivamente condivisa, e parlavamo delle nostre storie, dapprima per cenni e allusioni, poi sempre più decisamente dei problemi non così differenti che affrontavamo tutti i giorni, lui con i suoi parrocchiani, io con la mia congregazione; della vita, diversa e così simile, mia e sua.

Parlammo a lungo, distesamente, serenamente, pacatamente, quasi incuranti del tempo che scorreva, degli incastri, delle responsabilità, dei tumulti quotidiani; ridemmo spesso. Aveva un impegno alle cinque non troppo distante dal mio ufficio: una mezz’ora prima ci salutammo. Mi disse che avrebbe conosciuto volentieri mia moglie e la bimba e così ci mettemmo d’accordo per la domenica sera della settimana dopo.


Curioso. Singolare. Vissi i giorni intermedi in uno stato d’animo che, dapprima sfuggente, enigmatico quasi, si trasformava con un nitore sempre più scolpito in un vago e avvolgente senso d’ansia che mi sforzavo di scacciare e di cui, un poco, mi vergognavo anche; se ne andava, per poi ripresentarsi, inaspettato e tedioso come un leggero mal di testa, qualche ora dopo, quando meno me lo sarei aspettato. In cuor mio speravo davvero che Mark piacesse anche a Rachel e, a dire il vero, ne ero quasi certo; del resto, mi dicevo, non potevo pilotare le cose più di quanto avessi già fatto. 

Va detto, a questo proposito, che il mio amore per la secondogenita della famiglia Berkovich, anni prima, era sgorgato – con forza, con prepotenza persino, anche con una non ovvia velocità che aveva fatto persino impensierire i miei futuri suoceri, poveretti – per tanti motivi: i suoi occhi chiari che splendevano, la sua solare determinazione, la sua capacità di leggere nel cuore delle persone: e non solo quanto a formazione e professione; ma avevo anche intuito – con una certa lentezza, a dire il vero, con alcune resistenze e non senza una patina di nervosismo strisciante, all’inizio, una striatura di invidia – che era ricca di un buon numero di qualità che a me mancavano, o che avevo in misura insufficiente, o in stato embrionale e quasi inconsapevole: forse perché uomo, forse perché io. Col passare dei mesi, poi degli anni, mi ero a poco a poco rassegnato prima, abituato poi, all’idea di rimanere in attesa e in ascolto delle sue reazioni e di sposarle, come già avevo fatto con lei: riusciva istintivamente a modellare un primo giudizio sulle persone che solo di rado, negli anni, si era rivelato non corretto, o perlomeno non del tutto. Quanto al perché Rachel si innamorò di me, non sta certo a me dirlo, e credo di non averlo compreso mai davvero. Anche lei, a ogni modo, era impaziente di conoscere Mark, questo sì. 


Si comprende meglio, dunque, perché il dlin-dlon placido e paffuto del nostro campanello suonò alle mie orecchie più simile al fragore di uno scoppio, quella sera, o allo schiocco di una fucilata. Mi stavo gustando nella penombra della mia luce a stelo un passo di un bell’articolo di Friedmann quando mi ritrovai, quasi senza accorgermene, in piedi e col baricentro sbilanciato in avanti, un centometrista al rallentatore pochi secondi dopo lo sparo di inizio, catapultato nella luce gialla del corridoio a un passo dalla porta bianca.

“Reverendo Palmieri, si accomodi, ben arrivato!” dissi con un sorriso.

“Caro rabbino Kaplan, buona sera. Mi sono permesso di portarvi un piccolo pensiero. E, visto che a tutti e due – spero tutti e tre: la bimba è ancora troppo piccola, no? (e sorrise compiaciuto ma al tempo stesso un po’ impacciato) – piace il bianco, ho fatto tesoro del mio periodo italiano, sono passato dal negozio in fondo alla via, ed ecco” (disse in italiano porgendomi la bottiglia che andava via via affusolandosi). E arrossì un poco, mentre diceva.

“Bella idea, Mark: c’è pesce, anzi, dunque benissimo! Ti piace, no?”.

Rachel stava finendo le ultime cose, facendo la spola fra la cucina e il soggiorno; aveva in braccio Esther in quel momento, la guancia sinistra di nostra figlia appoggiata mollemente alla spalla sinistra di sua madre, gli occhi chiusi. 

“Ecco Mark, questa è Rachel. Rachel, Mark”. Al che Mark, notai, salutò Rachel con piacere, e tenne tuttavia il suo cappello, con la sinistra, quasi premuto contro il suo stomaco, come a proteggersi, o a sentirsi meno vulnerabile. Un’impressione fugace.

“Piacere, Mark, Nathan mi ha parlato molto di te, sono contenta tu sia qui con noi, stasera. Esther si è addormentata poco fa; la porto in camera e sono da voi”. Senza fronzoli, senza dire altro: era così come la si vedeva, così come appariva. E la scala l’involò.

Passando in cucina mettemmo il vino in freezer, ci spostammo in studio. Vidi che Mark sostò un istante sulla soglia, ad apprezzare il mobilio (lo vellicò con lo sguardo, quasi, mi parve), la luce, lo snodarsi elegante delle librerie lungo tutte le pareti. 

Fu attratto da due riproduzioni, e io ebbi una sorta di déjà-vu.

Chiese, risposi, un copione ormai noto; “… capisco, mi dirai”, disse, ma senza distogliere lo sguardo e come se non stesse parlando realmente con me: più a sé stesso, mi sembrò. Avvicinò poi lentamente la sua mano destra aperta al vetro, senza toccarlo, come non volesse disturbarne il contenuto e, al tempo stesso, volesse coglierne una qualche forma di energia, di essenza. Volse poi lo sguardo a destra.

“Splendide davvero, tutte e due”. E tuttavia, dicendolo, aveva ripreso a fissare la prima, il collo leggermente proteso, il mento impercettibilmente all’insù forse, semplicemente, per guardare attraverso la metà inferiore degli occhiali. Sembrava come attratto, alla lettera, come in gravitazione nel campo dell’aura emanata da quell’immagine di mondi veri e immaginati racchiusi l’uno nell’altro, concentricamente. Fu un dettaglio, questo, che mi rimase impresso per giorni se non settimane; e per giorni o settimane mi chiesi perché. Ancora oggi non saprei dire.

Proprio in quel momento ci raggiunse Rachel e – triadicamente: con un sorriso, uno sguardo, un gesto morbido della mano – ci invitò ad accomodarci. Illuminata da luci studiate, la tavola era invitante, lo ricordo come se fosse ora: candida la tovaglia, essenziale ed elegante il servizio, una gioia per gli occhi il pesce argenteo che Rachel aveva preparato, un buon profumo di cibo nella stanza, caldo attorno. Pronunciai le benedizioni, iniziammo. 

“Allora, Mark, mi dice Nathan che hai studiato qui a Baltimore”.

E fu qui che Mark cominciò a dirci pacatamente dei suoi anni al St. Mary's e delle centinaia di ore alla Knott, dove aveva intessuto amicizie, aveva nutrito la sua fede (lo sto citando) e aveva saziato, almeno in parte, il desiderio dei suoi vent’anni di storia e di teologia. Ricordava con grande affetto quel periodo: era una vita semplice, in fondo, a suo dire. Una vita semplice: cosa non da poco, pensai io... Tutto quello che ci si aspettava da lui era che studiasse, rigasse ragionevolmente dritto (rise un po’ imbarazzato nel dire questo), facesse gruppo con gli altri seminaristi e desse una mano, la domenica, nelle parrocchie del circondario in cui si presentava via via qualche necessità. L’ingombro delle preoccupazioni, delle responsabilità, del peso delle vite altrui era oltre l’orizzonte; fu per Mark un tratto di vita sereno e pianeggiante.

“E poi sei stato anche in Italia”.

Non udii nulla, preciso; ma avrei potuto udire un interruttore lontano scattare. Qui, infatti, il suo tono di voce cambiò repentinamente, naturalmente: il suono della sua voce si fece più morbido e rotondo, la scansione delle parole si diradò e rallentò come a stirare il tempo o a rivivere un tempo scandito diversamente; parlando, Mark sorrideva ricolmo di una pienezza beata, frutto maturo e dolce di memorie dense. Ci disse di quanto era diverso, là, a Roma, nella città eterna. All’ombra della cupola di San Pietro, a contatto con le mura e i tesori artistici e librari vaticani, in uno stato di dialogo fluido, costante, silenzioso con le quasi mille chiese che trasudavano tutte di storia, di arte e musica inarrivabili e di storie individuali, di secoli di devozione, di miracoli e santi, che trasmettevano un senso di identità che, da un certo punto di vista, poteva sembrare incrollabile. Ci disse poi degli infiniti pellegrini da ogni angolo del pianeta, della gioia pura che, chiara, si disegnava sui loro visi mentre scorgevano per la prima volta il colonnato del Bernini abbracciare maternamente i fedeli che si apprestavano ad avvicinarsi alla basilica; e, di sé, ci disse del suo magnifico stupore nel sentire per la prima volta, nell’Urbe, l’intrecciarsi come in un tessuto miracoloso delle cinque voci dell’Ave Maria di Palestrina che sembravano sgorgare con levigata, mesta, partecipe perfezione da qualche sorgente nascosta e purissima; e delle due lacrime calde che sentì rigargli le guance nel vedere dal vivo la Trasfigurazione di Raffaello; delle nubi che versano pioggia calda nel Tevere indolente e sui tetti bronzei della capitale, dell’enclave appartata del Vaticano, del cibo gustoso dai sapori decisi, dei vini dei colli schietti e forti, della gente chiassosa, cordiale, incomprensibile, a tratti, ai suoi occhi americani. Dello splendore, della decadenza, delle immensità, dell’ineffabilità di Roma. E ci disse tutte queste cose con un tono quasi sognante, mentre i suoi polpastrelli sfioravano adagio il bicchiere slanciato del vino e i suoi occhi si perdevano nel suo giallo paglierino. Stava riportando a galla, per noi, dei ricordi che certamente dovevano essergli molto cari. Non c’era tristezza, in questo: nostalgia, sì, e molta. Fu così che ci raccontò molti aneddoti e ricordi di quel suo non breve soggiorno romano.

Smise di parlare, quasi commosso.

Guardai Rachel e dissi “le-chàyim!” alzando il bicchiere; e persino Esther, se si fosse svegliata in quel momento, avrebbe potuto udire dalla sua cameretta il tintinnio dei tre calici, festivo.


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