Il tiglio
Giuseppe Letizia, Ciclicità, pietra leccese

Il tiglio

diTeresa Mariniello

Un’ennesima notte insonne a rigirarmi tra le lenzuola, ad ascoltare la parte lucida di me che mi dice che grazie a questa storia finalmente la mia falda è venuta alla luce e che l’acqua rampolla, che troverà letto altrove per farsi torrente o fiume, e l’altra parte che non si consola e che nel tuo nome vorrebbe cullarsi.

In questo tempo di fisarmonica a volte lento da clessidra, a volte veloce come quello di un trapezista. In questo pendolo che mi sospende tra le lacrime per una strada che io stessa ho scelto di percorrere, e il riso che ancora mi sommerge al ricordo di un tuo gesto o maniera di offrirti a me.

 

All’alba mi sono seduta al balcone di fronte alla magnificenza del tiglio, ed era già un brulicare di vita. Intanto la timida luce che brilla diversamente sulle foglie, e dà corpo a ognuna di esse a seconda di quanto è esposta. Un verde diverso per ogni foglia. E poi gli insetti, febbrili, nel trasportare vita, con battiti sapienti ed equilibrati di ali. Un concerto che allenta ogni tensione, sofferenza in me. Trasportare vita, più che prenderla, mangiarla agli altri esseri, in questa che mi appare una legge spietata.

Il vagare, ai miei occhi, apparentemente ozioso, degli animali da cortile, l’accendersi dei fiori di un colore umido e grato, l’aprirsi delle ali al battere del volo.

Ecco nel piccolo stagno le anatre, cominciano le loro abluzioni mattutine, immergono con delicatezza il collo per poi riemergere brillanti, splendenti nei colori. Più in là, solo, ma pare non gli dispiaccia, l’asino saluta come sa il giorno. Non è un bel verso il suo ma lo leva al cielo nel concerto delle altre creature. E poi le allodole, i piccoli passeri così tenaci, i merli con quel loro fare insieme ardito e insieme timido, le tortore con quel suono di fiati. E tanti altri animali di cui non so il nome ma di cui individuo il volo. Mi piacerebbe, sì che mi piacerebbe, immergermi nell’azzurro con loro. Avere forza di tendini e leggerezza di piume per puntare verso il sud in cerca di vita. Nuova vita o vita che si rinnova.

Ecco è possibile ora mettere meglio a fuoco i fiori, che non chiedono nulla per la loro grazia, per la necessità che hanno di fiorire. Quelli ordinati delle aiuole alzano il capino come a stropicciarsi e allungarsi dopo la notte, quelli dei cespugli aprono i petali piano, come per la meraviglia di guardarsi intorno, e quelli nei vasi che restano invece muti e fermi come ad aspettare una mano che li liberi dalla brina.

E il miracolo della luce si compie del tutto, accende ogni cosa.

Tutto il tiglio si rinnova e si apre a ventaglio per prenderla e assaporarla, così i piccoli abitanti arrampicati su di esso o appollaiati, così i fili d’erba sparsi nel prato, e che sono prato, ma che a quest’ora sono nella loro unicità di filo d’erba con la propria vena e sfumatura.

E arriva anche su me, e sui miei coni d’ombra. Sui capelli biondi e sparsi, sulla figura giovane che conservo, su questo sorriso che m’invade gli occhi e che è la mia dottrina di vita. Sorridere comunque, cercare e dare leggerezza. Anche quando piove da tempo e vorresti solo accucciarti davanti al camino con a fianco qualcuno che ti dice: vieni accanto a me.

E quel desiderio te lo tieni dentro e ne fai sorriso da spargere intorno, perché a nessuno fa piacere ascoltare di tristezze e di malinconie. Soprattutto se prolungate. C’è un tempo per ogni cosa, e questo tempo passa nel momento in cui gli altri non ti chiedono, non si informano più solleciti di te. E allora capisci che è un tempo passato e che sei tu che devi adeguarti a ciò che rientra ormai in una normalità.

 

E sostando in questo nulla di pensieri, perché sono solo osservazioni, mi allungo sul tappetino per i miei esercizi consueti di yoga. E realizzo, in un inequivocabile battere di ciglia, che dopo aver navigato a vista per tanti mesi con te, è arrivato il momento di prendere la decisione di non sperare più di averti come compagno di vita.

Di non voler più affrontare la fatica, il dolore di trovarmi di fronte alle tue rimozioni, fughe, incapacità di scegliere tra me e lei, del non voler più accettare il tuo vagare nella casa stringendo i pugni tanto che a entrambe sembrava più tollerabile la tua perdita che quella vista; per non parlare dei lunghi e sofferti discorsi su come io fossi imprescindibile e lei preziosa, per non parlare dell’invito a cena a casa tua, a casa vostra.

Stavi tra di noi quasi in silenzio, sospeso tra l’imbarazzo e il piacere a vederti tanto conteso.

Lo so, sono stata io a voler attraversare tutto ciò, a voler sfuggire ai canoni classici del tradimento, a non voler essere amante perché in relazione clandestina, ma perché donna in amore; e che per quell’amore ha lottato, è uscita allo scoperto, ha voluto essere vista. Mi sembrava davvero che fossimo riusciti a costruire un rapporto pieno di qualità e sincerità, e che portarlo fuori, con tutte le conseguenze, fosse un atto di coraggio.

E tua moglie non si è tirata indietro, non ti ha fatto scene, ti ha dato tempo per riflettere con calma, anche quando mancavi per giorni, anche quando hai deciso di venire con me in Egitto; una splendida crociera sul Nilo, piena di risate e di notti a guardare scorrere il fiume sotto una luna piena e stranamente calda. Come ti ho dato tempo io quando hai scelto di passare con lei e con gli amici di sempre un’intera estate in barca a vela, al largo della Corsica; mi hai portato anche una sciarpa fatta a telaio e l’hai aperta coprendo per un attimo il tuo volto abbronzato.

E quanto tutta quest’attesa ci sia costata forse l’abbiamo capito entrambe a cena quella sera.

L’invito era partito da lei, con semplicità e anche una sorta di spirito di cameratismo che tuttora non mi sento di condividere: “Tanto per conoscerci, mi aveva detto, per vedere che faccia abbiamo.”

La sua sorridente, nonostante il nervosismo delle mani, e aperta, leale. I capelli biondi come i miei, gli occhi azzurri come i miei.

Capii subito dalla cura della casa e del giardino, dall’accuratezza della tavola, dal sapore equilibrato delle pietanze, che pur di conservare te avrebbe tenuto anche me; materna, quella sera ti aveva trovato un po’ pallido e ti consigliava una vacanza con disinvoltura.

Non era questo che cercavo, entrare in una trappola di ovvietà: in un guerreggiare sottile tra donne, o un dividersi pacificamente un uomo, come fosse un appartamento di vacanze. O addirittura aspettare trepidante la sera in cui le lanterne rosse si sarebbero accese fuori la mia porta.

E nel dirmi questo, ancor prima che si risvegliassero le mie antiche paure, avevo ripreso a mangiare una cena completa, e poi dopo ad aggiungere dessert e cioccolata, e bere nel frattempo; la sera, quando mi trovavo libera dagli impegni del quotidiano. Per colmare il vuoto di un’assenza e di una decisione. E il mattino, col corpo stanco, con un’alba indifferente, a organizzare una giornata piena, ancora per stordirmi e non scorgere la tua effimera presenza.

 

Un amore non può trasformarsi in un suicidio, mi alzo dal tappetino e mi preparo il caffè. L’aver superato la mia ricerca maniacale di autosufficienza, che per tanto tempo aveva reso impossibile la vita a due, non può tenermi ora in una stretta dipendenza da te, e intanto sgranocchio un biscotto.

E allora, nonostante questa fine che non avrei voluto, ringrazio la vita per quanto nel profondo sono stata attraversata e toccata, per le porte di me che ho riaperto, e spalanco ancor più quella che dà sul tiglio.

Mi chino sulla meraviglia di sentire possibili e realizzabili i miei desideri, e intanto sfoglio i miei vecchi spartiti. Ne apro uno quasi a caso, si leva la prima nota dal mio pianoforte. E d’incanto sei nel mio passato.


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