Alda Merini, la poesia come sfida
Io sono certa che nulla più soffocherà la mia rima,
il silenzio l’ho tenuto chiuso per anni nella gola
come una trappola da sacrificio,
è quindi venuto il momento di cantare
una esequie al passato.
Alda Giuseppina Angela Merini nasce il 21 marzo1931 a Milano. Il padre, Nemo Merini, è un impiegato, la madre, Emilia Painelli, casalinga. In una nota autobiografica così si descrive:
"ragazza sensibile e dal carattere malinconico, piuttosto isolata e poco compresa dai suoi genitori ma molto brava ai corsi elementari: ... perché lo studio fu sempre una mia parte vitale".
Alda vive il dissidio familiare tra un padre colto e affettuoso e una madre severa e pragmatica. Sarà sempre la figlia eccentrica e ribelle, da domare e da addomesticare. Esordisce come autrice giovanissima, a 15 anni. Giacinto Spagnoletti in seguito diventò la sua guida e ne valorizzò il talento. Nel 1947, a sedici anni, la Merini incontra "le prime ombre della sua mente”. Viene internata per un mese nella clinica Villa Turro a Milano, dove le viene diagnosticato un disturbo bipolare. David Maria Turoldo, amico poeta e padre spirituale la convince a iniziare la psicoterapia. La sua vita letteraria prosegue felicemente, incontra, grazie a Spagnoletti, Eugenio Montale, Maria Luisa Spaziani, Salvatore Quasimodo e inizia a pubblicare le prime poesie e le prime raccolte con gli editori Scheiwiller e Schhwarz. Diventa nel 1953, a soli ventidue anni, la moglie di Ettore Carniti, operaio sindacalista e panettiere, poi madre di quattro figlie. Si alternano periodi di salute e di malattia, dovuti al disturbo bipolare, che la porteranno anche alla drammatica esperienza dell’internamento nell’Ospedale Psichiatrico “Paolo Pini” di Milano, narrata nel suo capolavoro La terra santa, con cui vincerà il Premio Montale. Da quel momento, le vicende letterarie saranno altalenanti e la poetessa vivrà un amaro isolamento dal mondo culturale che fino ad allora le era stato accanto.
«Non avrei potuto scrivere in quel momento nulla che riguardasse i fiori perché io stessa ero diventata un fiore, io stessa avevo un gambo e una linfa» da L'altra verità. Diario di una diversa
Nel luglio 1995 venne accettata la sua richiesta di poter usufruire del fondo destinato agli artisti che vivono in precarie condizioni economiche previsto dalla Legge Bacchelli, dati i debiti accumulati dall'autrice. Per cinque anni le era stato rifiutato a causa delle due pensioni che già riceveva. Nell’ultima parte della sua vita conoscerà il successo e il riconoscimento prestigioso della critica letteraria. Non voglio addentrarmi nella copiosa e ininterrotta produzione poetica di Alda Merini e nelle sue infelici vicissitudini private, ma ricordare la sua esperienza di “donna che scrive poesie”, capace di creare nodi esemplari tra lo sguardo intimo del suo dolore e la richiesta di ascolto mediante la pagina scritta, testimone della sua orfanità familiare e della sofferenza psicologica. Attraverso la sua testimonianza lirica, ci accompagna con passione e tenacia dentro il suo inferno, un inferno che come un fuoco la purifica e la redime. Non è scontato certo che la malattia mentale porti automaticamente al genio della poesia, eppure Alda Merini come Luigi Campana e Ada Negri furono capaci di estrarre oro dalla loro sofferenza psicologica.
Ho conosciuto Gerico,/ ho avuto anch’io la mia Palestina,/ le mura del manicomio / erano le mura/di Gerico / e una pozza di acqua infettata/ ci ha battezzati tutti. / Lì dentro eravamo ebrei / e i Farisei erano in alto / e c’era anche il Messia / confuso tra la folla: /un pazzo che urlava al Cielo tutto il suo amore in Dio. / Noi tutti, branco di asceti / eravamo come gli uccelli / e ogni tanto una rete / oscura ci imprigionava / ma andavamo verso le messe, / le messe di nostro Signore / e Cristo il Salvatore. / Fummo lavati e sepolti, / odoravamo di incenso. / E dopo, quando amavamo, / ci facevano gli elettrochoc / perché, dicevano, un pazzo / non può amare nessuno. / Ma un giorno da dentro l’avello / anch’io mi sono ridestata / e anch’io come Gesù / ho avuto la mia resurrezione, me non sono salita nei cieli / sono discesa all’inferno / da dove riguardo stupita / le mura di Gerico antica.
L’interiorità incandescente della poeta diventa il sublime ricettacolo di un’alchimia mistica e filosofica, dove ogni accadimento esterno compare come allegoria esistenziale di un dolore cosmico. La coscienza di un martirio ingiustificabile, il desiderio di non soffrire più diventano strumenti di una strategia interiore del soggetto che agisce e opera per la propria sopravvivenza. Alda Marini si riconosce in quanto vittima ma anche come ribelle, capace di un sovvertimento quotidiano. Colei che subisce i tormenti e le torture manicomiali è anche colei che dichiara di andare oltre la sconfitta del corpo e della mente, in un altrove immaginario, sede mistica di una salvezza creaturale imprevista. La sua poesia assurge a quel carattere di universalità e atemporalità che si richiede ad ogni forma artistica. Non è possibile scindere la poesia di Alda Merini dalla sua battaglia esistenziale, una lotta quotidiana per rimanere lucida in un purgatorio dove viene dato per scontata la perdita dell’identità personale, la resa di ogni sogno, la distruzione di ogni talento. Non è possibile separarla da quel luogo strettamente legato alla sua vita. Essere una persona ai margini della vita civile, conoscere la reclusione fisica e la cancellazione di ogni diritto la rendono la paladina degli ultimi, la voce che ricorda quell’inferno da cui non si ritorna. Diventa l’esperienza incarnata di quel confine tra sanità mentale e follia. La scrittura diventa l’ approdo delle anime perse, che chiedono la salvezza attraverso la denominazione del loro dolore. Alda Merini, attraverso la sua scrittura poetica e autobiografica, con una tenacia epica inestinguibile si racconta e racconta il suo carcere a vita, la gabbia dove è vissuta retrocedendo allo stadio di creatura sedata e tenuta in una ingiusta cattività. Ci ricorda che quanto più l’anima viene negata e misconosciuta, tanto più l’anima desidera l’amore, la salvezza e lo sguardo della Misericordia divina. Ogni sua pagina ha segnato di bellezza questo doppio registro, dalla terribile ferocia di una condizione psicofisica assolutamente lontana da ogni processo di guarigione e di cura, come la camicia di forza e gli elettroshock, al risarcimento letterario dell’ autrice riconosciuta nella propria identità di persona viva e creativa, capace di un riscatto civile totale attraverso la sua arte.
Laggiù dove morivano i dannati / nell’inferno decadente e folle / nel manicomio infinito / dove le membra intorpidite / si avvoltolavano nei lini / come in un sudario semita / laggiù dove le ombre del trapasso / ti lambivano i piedi nudi / usciti di sotto le lenzuola / e le fascette torride / ti solcavano i polsi e anche le mani, / e odoravi di feci / laggiù, nel manicomio / facile era traslare / toccare il paradiso, / Lo facevi con la mente affogata / con le mani molli di sudore /col pene alzato nell’aria come una sconcezza per Dio. / Laggiù nel manicomio / dove le urla venivano attutite / da sanguinari cuscini / laggiù tu vedevi Iddio / non so, tra le traslucide idee / della tua grande follia. Iddio ti compariva / e il tuo corpo andava in briciole / delle briciole bionde e odorose / che scendevano a devastare / sciami di rondini improvvise.
In questo testo, grande la magnificenza di ogni metafora. La parola “Laggiù” che apre numerosi versi indica la profonda vertigine dell’incarcerazione manicomiale, dove l’infamia del corpo nudo e offeso, la vergogna di sentirsi umiliato e ridotto a cosa inutile e deforme diventano la segnatura ascetica di una cristiana redenzione, il passaggio di un martirio evangelico, il percorso di una santità dovuta e riconosciuta per gli ultimi, per gli innocenti senza voce, per i pazzi e i poeti. Il dolore è così il protagonista assoluto di una ascesi, di un percorso verticale che la poetessa cerca e nomina ossessivamente, trasformando ogni delirio in un alfabeto della liberazione.
La triste toeletta del mattino, / corpi delusi, carni deludenti, / attorno al lavabo / il nero puzzo delle cose infami. / Oh, questo tremolar di oscene carni, / questo freddo oscuro / e il cadere più inumano d’una malata sopra il pavimento. / Questo l’ingorgo che la stratosfera /mai conoscerà, questa l’infamia / dei corpi nudi messi a divampare / sotto la luce atavica dell’uomo.
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