Alle origini del giallo italiano: Tito A. Spagnol e i polizieschi veneti
Tra i primi giallisti italiani che pubblicano nella collana “I Libri Gialli” della Mondadori, troviamo uno scrittore veneto, Tito Antonio Spagnol. Nato a Castelfranco nel 1895, Spagnol gira il mondo come giornalista, sceneggiatore cinematografico, agente letterario ma anche contabile, lucidatore di pianoforti, produttore di specialità farmaceutiche e perfino cercatore d’oro. Amante dell’avventura e del “navigare senza bussola” che considera “il modo migliore per vivere”, quando rientra in Italia, in meno di dieci anni scrive numerosi romanzi e racconti pubblicati da Mondadori, Rizzoli e Gallimard, tra i quali sei romanzi polizieschi scritti tra il 1932 e il 1938.
A quel tempo la creatività dei giallisti italiani era fortemente limitata dalla censura fascista che imponeva che l’assassino fosse straniero, che non potesse sfuggire in alcun modo alla giustizia, che nessun personaggio si suicidasse e che la vicenda avesse un lieto fine. In questo clima intimidatorio era preferibile scegliere ambientazioni estere per sentirsi più liberi. Così i romanzi di Spagnol si svolgono a New York e a Hollywood, luoghi che lo scrittore conosce bene.
Tutti tranne due: La bambola insanguinata (1935) e Uno, due, tre (1936), entrambi ripubblicati di recente dall’editore Dario De Bastiani.
Ambientati nelle colline del trevigiano, questi due romanzi vedono come investigatore Don Poldo, un parroco di campagna, un entomologo ottuagenario “magro, piccolino, con le spalle curve, una corona di capelli bianchi intorno all’alta fronte rugosa, occhi grigi pensosi, pieni di dolcezza ma al tempo stesso di fermezza”. Una specie di nonno ideale o di Padre Brown, personaggio a cui è accomunato dalla capacità di svolgere il ruolo di voce della coscienza, insinuando il tormento del rimorso nell’animo dell’assassino.
Guidato da curiosità scientifica e umana, Don Poldo usa la sua capacità intuitiva per risolvere i casi mentre la sua profonda misericordia gli fa comprendere a fondo il cuore degli esseri umani, criminali compresi. “La mia presenza nei luoghi stessi in cui il duplice delitto era stato consumato, mi metteva in uno stato di eccitazione anormale. Le ombre degli ignoti assassini si aggiravano intorno a me, invisibili, ma non impercettibili per le mie facoltà spirituali. Io ne seguivo i passi con la mia fantasia, sentivo l’immanenza dei loro pensieri sostare nei luoghi, e fino a un certo punto, riuscivo a immaginare i loro gesti… Ma capisco che è difficile spiegare la cosa, e forse è anche inutile. Tuttavia posso dire che è da quegli stati d’animo così complessi e oscuri che a poco a poco è andata in me delineandosi quella che era la verità”.
I personaggi hanno una spiccata umanità e risultano autentici, primo tra tutti Celso Rosati, voce narrante, medico condotto della zona, nipote di Don Poldo e fervido ammiratore delle sue capacità investigative. Ma Spagnol ritrae con grande veridicità anche la gente semplice della provincia veneta e certi tipi pratici, gran lavoratori ma anche rozzi e attaccati al soldo tipici della regione.
In entrambi i romanzi Don Poldo viene chiamato in causa per scagionare un innocente, espediente narrativo che tiene alta la suspense fino alla fine.
Il paesaggio della campagna vittoriese ha tutto il fascino di quello della campagna inglese, se non di più. “Una siepe di biancospino, un cancelletto dipinto in verde, uno stretto viale dove c’era più erba che ghiaia fiancheggiato da piccoli bossi, e in fondo, dietro alcuni alberi, precisamente due bei cedri, un cipresso, una magnolia, qualche pino e un alloro, si vedeva la vecchia casa a due piani col timpano sopra al balcone e due finestre da ogni lato, che almeno cinquanta anni prima doveva essere stata dipinta in rosso, ma che ora aveva un colore indefinibile. Ad un fianco della casa si appoggiava una costruzione in vetri, recente, che io presi per una serra. Vicino agli stipiti del portoncino d’ingresso dai gradini consumati, c’erano due piante di limone in grossi vasi di terracotta, e sotto alla magnolia c’era il pozzo con una bella vera in pietra rossa e col secchio di rame brillante”.
D’altronde Spagnol diceva che Vittorio Veneto, dove morirà nel 1979, era onnipresente nelle sue opere, magari velato, ma sempre affettivamente vivo. In questo Spagnol non differisce da altri scrittori e reporter veneti come Piovene, Comisso e Parise che quando giravano il mondo portavano il Veneto nel cuore e nella memoria, e ne facevano la pietra di paragone dei luoghi che visitavano.
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