Cronache di fine Occidente La collina del Dingh” di Antonio Alleva
Antonio Alleva con “Cronache di fine occidente La collina del Dingh”, Puotoacapo editrice, consegna alla lettura un’articolata raccolta poetica nella quale il vissuto è intelaiatura per infiltrarsi con la parola nelle crepe della storia, dell’arte, del ricordo, della cultura, nel pentagramma di una struttura poetica sapientemente costruita tra spaziature e a capo, dislocazioni e scarti del verso. Si dovrebbe a rigore parlare di due raccolte in un unico libro, da un lato le Cronache di fine Occidente e dall’altro la Collina del Dingh.
Le Cronache hanno un portato politico, restituiscono la visione dell’autore su specifiche e rilevanti vicende dalle quali egli desume il tramonto dell’Occidente. La Collina del Dingh è invece – secondo le parole dello stesso autore - un non luogo, punto rialzato di osservazione del circostante che è di tale complessità e ricchezza da non poter essere ricondotto a un argomento. Si caratterizzano entrambe le raccolte tuttavia per il referto di un transito dinamico e continuo dell’interno all’esterno da sé e viceversa, in un chiaroscuro di luci e ombre introspettivo e indagatore dell’esistenza propria e delle umane vicende
Lunghi titoli in corsivo introducono i testi poetici. In molti casi questi titoli non appaiono tanto diretti a illuminare il senso quanto a partecipare suggestione, sembrano comunicare un ricco, misterioso, prezioso e umanamente sfaccettato mondo che abita il poeta. Non solo cioè la sua mente e l’animo, cioè interiormente per letture, visioni, apprendimento, esperienze, ma proprio come sua personale contiguità fisica e/o conoscenza di un’ampia platea di persone e personaggi, amici, esseri che gli popolano la vita. Sabatino tra tutti, altrimenti detto Batine o Batì. Il poeta con Sabatino conversa in lingua madre, cioè nel suo dialetto. Oltre alla particolarità dei titoli spiccano gli inserti dedicati ai fratelli e sorelle maestri, poeti di fama, dei quali l’autore seleziona per ciascuno un unico testo che riporta nel libro in corsivo, inframmezzando così pagine della loro alle pagine della propria scrittura. Alcune poesie sono incursioni nel dialetto dell’autore con traduzione a fronte, altre invece sono riportate come scritte di pugno con minuta e raccolta scrittura. Qualche tavola disseminata con foto d’autore (una di Beniamino Procaccini e l’altra di Alida Mascitti), ritratti del poeta. Ci sono note di chiarimento e citazioni a margine, letture critiche di Lorenzo Gattoni e Marco Munaro.
L’insieme è un’opera pensata, ben confezionata, varia che ad ogni svolta di pagina sorprende per qualche colpo d’ala. Potremmo pensare a una strategia che si nutre del segno grafico-immagine per dare anche con quello significato, comunicare visivamente in opposizione al rischio di una piatta sequenza verbale. Di fatto il libro tiene desta l’attenzione.
La raccolta si apre coi toni densi di una desolazione incombente, scandisce i tempi della fine imminente di un occidente già anticipata dalla titolazione e che si esplicita, passo dopo passo, nei testi della prima sezione o raccolta. La drammaticità degli argomenti è palese, la tensione inevitabile, si ergono parole tra lo sdegno e lo j’accuse. Cattedrali di consapevolezza, memoria e constatazione, talvolta con tono irridente, il verso sbeffeggia ironicamente il potere. Nell’affrontare i mali della contemporaneità che affliggono singoli e società la parola poetica si fa denuncia, invettiva, pietra, macigno che seppellisce o si scaglia con misurata rabbia, con dolore, con compostezza implacabile, quando non diventa una rassegnata presa d’atto dell’ineluttabilità dei fatti, d’ osservazione dell’accadimento irreparabile e dagli effetti devastanti. La colpa il più delle volte dell’umana congrega, macerata tutta e da sempre dal desiderio di potere.
Scannarli vivi. Gli avi, i capi
i popoli che ancora li eleggono,
gli imperi coloniali il cancro della volontà di potenza.
Sono loro i rei, siamo noi.
Evidenti i riferimenti storici o attuali, a cominciare dallo scempio perpetrato con la Shoah, così devastante fino ad ammutolire il canto, passando dalle migrazioni, alla pena inesausta della guerra, al terrorismo che ricade sul tenero dell’infanzia, ad attentati eccellenti che hanno segnato la memoria collettiva. Il fermo immagine coglie l’attimo causa di eventi irreparabili, ingovernabili, che cadono precipitosi come birilli al rotolare della palla. Il detonatore fa brillare la bomba e tutto avviene per come deve fino all’esaurimento di effetti ancora sofferti, ancora da prodursi come onda lunga del trauma.
Antonio, e ciò che rimane di sé,
se ne vanno sotto l’albero di Paolo e Giovanni
accarezzano ad una ad una le foto che pendono dai rami
poi abbassano le palpebre
-la mano scatta verso la fondina-
e rigirano la scena centrando in fronte
l’addetto al detonatore
Si contrappone alla gravità dei passi che sono squarci sul presente o passato, la poesia dei momenti di pace. L’oscurità risulta stemperata da gruppi di versi che sono veri e propri inserti di bellezza, quadretti descrittivi di natura e di luoghi, pause dall’angoscia del vivere, prove di salvezza possibile o auspicata.
Il drone fotografa, spazia in tondo, altri Otruni altri campanili
altri gerani ai davanzali altre ortensie lungo le ringhiere
e il silenzio che sentite esalta il dire antico delle cicale.
In Rocco e Matilde che chiacchierano con Vina
splende una qualche residua gioia di vivere.
Ecco il lieve dondolio delle tende antimosche,
i portoni a bocca di lupo sotto i pergolati
il sole bolla abbacina i sedili di pietra gli orti pensili
il drone s’intrufola nella frescura degli ingressi a piano terra
lo specchio la Singer, il portaombrelli
la consolle, vecchi pastrani, il telefono coi numeri che girano
oppure altrove
all’apericena
io e i cavalli dell’ippoclub lì a fianco
ci ritrovammo insieme sulla sabbia, ispirati e pazienti,
c’erano con noi la riva e il caro lume della luna
io a fumare, loro fieri coi mantelli che brillavano
sembravano un dipinto sul silenzio sulla calma
sulla pace delle onde
È voluta una certa semplicità nel nominare le cose che si contrappone alla ricchezza culturale, letteraria, internazionale profusa ampiamente e con naturalezza. Come voluto è il linguaggio colloquiale, narrativo, pervaso di malinconia, il verso lungo dal lungo respiro. Raymond Carver e Giorgio Gaber, tra i riferimenti dichiarati. L’effetto è di sobria nudità, di compostezza paziente, un verseggiare atipico, antiepico e profondo, pur immerso nel pensiero di alte cose, drammi umani, afflizioni, ma anche affetti, terra, materia, spiritualità speranza e dolore.
Si sente un canto di bambini
in questo avvento spaesato dal sole
e perdura dentro tutte le ore
e proviene da mondi di fumo lacrime e rovine
proviene dalle rive
dove s’è intonato a ninna nanna sull’iracondia degli oceani
proviene da questo boschetto di muschi trifogli e pungitopi
qui cadeva la neve
le bacche del ribes struggevano con l’incanto
del rosso sul bianco
le staccionate reggevano i passeri
e vedevi le orme delle galosches i pastrani
il vocio dei capannelli verso la mezza di mezzanotte
si sente un canto nuovo di bambini
e perdura.
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