Luciana Bianchera “L’arte dell’affanno”
Paolo Menduni, Napoli è

Luciana Bianchera “L’arte dell’affanno”

diEmanuela Dalla Libera

La raccolta di poesie “L’arte dell’affanno” di Luciana Bianchera costituisce un doppio inizio, per l’autrice che è alla sua prima opera poetica, e per la casa editrice Gilgamesh che con questa silloge inaugura una nuova collana di poesia. È un inizio significativo che racchiude in sé elementi fondamentali, il primo dei quali la consapevolezza che la poesia continua a svolgere un ruolo tutt’altro che marginale nel novero delle espressioni artistiche cui un pubblico, esiguo forse, ma comunque appassionato, continua a rivolgersi, e in secondo luogo del bisogno prepotentemente avvertito di usare la parola per dare forma a quelle espressioni di sé che andrebbero altrimenti perdute, risucchiate dal vortice del tempo che annulla, mistifica, confonde e infine inevitabilmente dissolve. E questa silloge, concepita con l’immediatezza di chi vede nella poesia lo spazio aperto e in perenne divenire per depositarvi il lato più ineffabile ed etereo del proprio essere e del proprio vivere, ne è un’eloquente rappresentazione.

È un’opera che già nel titolo rivela qualcosa di curioso e intrigante, come la somma di due opposti che cercano di giungere a unità, di compenetrarsi per restare indissolubilmente legati. Arte e affanno si contrappongono a indicare l’una una immagine di finitezza, di obiettivo raggiunto dopo una faticosa ricerca, di stasi, di compimento, di compiutezza. L’idea di affanno suggerisce invece l’idea di qualcosa di dinamico, di disordinato, di tormentato, qualcosa che diviene e ancora non trova pace né compostezza. Sono due termini antitetici che la poesia dell’autrice riesce a saldare, nelle quarantaquattro liriche che costituiscono la raccolta, in uno sviluppo di situazioni, memorie, riflessioni, sensazioni che si succedono secondo un ordine dettato da un io profondo, sommesso e sofferto che cerca la luce nella parola, nell’immagine, nel colore, nel suono. È un io che naviga nel tempo in cui abitano i ricordi, le esperienze vissute, gli affetti dati e avuti, tempo dal quale vuole riemergere aggrappandosi alla parola, unica realtà capace di ridare voce a ciò che è stato e di renderlo eterno, non più soggetto a divenire né a scomparire. Così riappaiono immagini legate all’infanzia che grida il suo desiderio di tornare, come a sottrarsi al vuoto del tempo che è stato e che può solo trasformarsi in memoria consapevole della nostra inesorabile sconfitta, mentre il tempo profondo e pieno è quello in cui coincidi col tuo sogno e la vita si sdoppia in presenza e assenza.

In questo tempo, sfuggente e perduto, si colloca la nostalgia, il dolore del ritorno e scavarsi dentro diventa la condizione indispensabile per dimostrare che sei esistito, che non è stato sogno o fantasia, e che solo camminandoci dentro si evita la banalità del tempo. E nell’ordine del tempo, che sopprime ma non cancella, riemergono figure che hanno lasciato un segno solido e imponente. Il padre, pur dipinto in un silenzio che ne avvolge un’esistenza diventata evanescente, impreparato per il viaggio ignoto, è visto nel suo incedere di guida, di esempio, di colui che protegge, davanti alla poetessa per la quale la morte finisce per rappresentare uno sconvolgimento, un accadimento che genera rabbia e ribellione che solo un luccichio di immagini dolcissime può placare. In questa vita in cui i ricordi rimangono impigliati in un groviglio di alberi e pietra il tempo si fa la materia prima del vivere. Ogni cosa è ad esso aggrappata, nel tempo riceve la sua ragione di esistere e di finire. Così la vitalità viene spinta allo spasimo, e se pure si configura talora un tempo vuoto in cui l’esistenza sembra per un attimo sospesa, questo non è che piccole pause riempite di passeggiate lungo il lago, risvegli all’alba per goderne i colori, riappropriazione dei propri sensi. E nel tempo la memoria si fa erranza, diventa un vagare tra pensieri sparsi cui si vorrebbe dare un ordine che si rivela impossibile, mentre resta certa la consapevolezza che nulla viene dimenticato e che tutto è diventato ciò che siamo.

Anche i luoghi vivono nel tempo. Parigi, Livorno, Borghetto. Metropoli, città, piccoli paesi si caricano dell’urgenza della poesia che fissa nel tempo case, sentieri e radure, accendono ricordi di altri luoghi, inducono ad amare ogni angolo, i cimiteri, i caffè polverosi, e restano abitati anche nella lontananza. Una poesia dunque che si annoda al tempo per trattenerlo e nel contempo lo dipinge rivestendolo di colore. Nelle parole di questi testi che portano a pensare a una scrittura immediata, spontanea, fluida, che penetra in una profondità in cui le parole nascono da sole e in cui il poeta non cerca ma trova, il cromatismo è ampiamente diffuso. Una tavolozza che anima la vita, il tempo, i ricordi e financo i desideri, un susseguirsi sparso di arancio, rosa, bianco, azzurro, blu, in cui profuma la speranza di primavera, in cui la poesia profuma di gioie avute, d’amori perduti, passioni spese.



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