Marina Pizzi è una sconfinata landa dell'inquietudine
È una sconfinata e desolata landa dell’inquietudine, quella che Marina Pizzi distende davanti agli occhi del lettore in Miserere asfalto (afasie dell’attitudine) 2007 – 2018, edito nel 2018 da Terra d’ulivi per la collana le ossidiane. Aforismi, meditazioni, illuminazioni, epitaffi, versi: scrittura, tout court, densa, caustica e sconvolta, a disegnare un paesaggio livido, tessuto di ombre, di sterpi. Luoghi spesso funerei, tombali: la poesia si compiace di abitare i luoghi in cui fiorisce l’asfodelo.
Una selva di indizi, più che di tratti, in decomposizione immaginativa e linguistica, perché la decomposizione linguistica sgretola anche i blocchi immaginativi. La fine, attraversata e avvistata, che ― dirà Marina ― «saetta divisione» ed è quindi, etimologicamente, diabolica, non è distruzione, esplosione, più di quanto non sia, contemporaneamente, decomposizione, implosione. C’è ovunque carenza o eccesso, assenza o tracotante presenza, che si rivela per ossimori nervosi. Le cose sono spesso ridotte all’osso, addirittura sorprese nel loro vuoto. Anche l’uomo è disarticolato, con inusitate vicinanze, improbabili prossimità anatomiche.
Non sbaglieremo a dire che il corpo, ma anche il linguaggio, è luogo di dolorose metamorfosi. La stessa Marina Pizzi ce ne dà conferma, facendo di Franz Kafka la stella forse più brillante della sua ben definita costellazione artistico-letteraria. Tornano categorie religioso-metafisiche kafkiane, quelle della colpa, del verdetto, del pentimento, del martirio. Il corpo è poco più di una riserva sacrificale. E la scrittura, come per Kafka, è il coltello che scava, anzitutto dentro di sé. E separa: il vero dal falso? Non proprio, perché: «Non di verità si tratta, sia inteso», non almeno di quella verificabile punto per punto, ma di conoscenza («L’ansia di sapere l’ho pagata con la vita»), di qualcosa che è molto prossimo alla sapienza e alla veggenza. Una mente prosciugata affronta ad occhi asciutti il mondo per non perdere di lucidità. Una scrittura secca, quella di Marina Pizzi, la cui aridità è pegno di illuminazioni per squarci senza tessitura poi, alle volte, affiora una poesia che sorprendentemente conserva tracce e memoria di un’antica partitura musicale («La poesia è musica di per sé, parole elevate alla potenza»).
Perde di valore la ricerca dell’evidenza, a favore della pars destruens del pensiero, che sia discorso o pura afasia. Il senso si nasconde in pieghe logiche e verbali, mentre invece l’evidenza mistifica, non manifesta, si fa beffe dell’enunciante. Neanche gli oggetti rivelano i luoghi dove si raccolgono, questi restano chiusi, inaccessibili e segreti come bauli con il catenaccio. Compito primo: fare tabula rasa di questa evidenza. Il dire ingombra lo spazio del dicibile? Allora benvenuto sia «lo spazio aperto di non dire niente». Il vero è aspro, asperrimo e richiede svezzamento, crescita, iniziazione, non abbandono ai sentimenti, controllo della carne, del corpo. Così «Vorrei poter leggere qualcosa di straordinario da restarne atterrita», perché il senso nascosto della realtà è il terrore. «Il tempo dello strazio è il più comune dei tempi», il più quotidiano, ma il dolore almeno non deforma, il dolore è solo un’utile lente di ingrandimento. E si scopre che anche per morire si fa la fila: se lo osservi più da vicino, ti mette a dura prova un mondo capovolto. Smarrite si aggirano persone non identificate e forse non (più) identificabili.
E allora: mondo slogato, corpo slogato, e linguaggio slogato. Anche se non ce ne avvediamo, siamo preda della banalità che guida e determina la consecutio del significato e del senso. Fedele ai suoi assunti, Marina Pizzi decostruisce l’esperienza, la disarticola, per tradurla in linguaggio atipico, atopico, rivoltato, rovesciato, esploso ed imploso in ogni frammento. La scrittura, sopravvissuta alla rovina, rialza la testa per quel tanto che può, senza ingannare sulla sua radice. Resta l’incastonatura, una rete di frammenti fortemente simbolici che fa leva sulle dicotomie come su un grimaldello, per fingersi una libertà di foglie. E gioca: gioca con le assonanze; con rime allucinate, livide; con i paradossi («un salvacondotto per rimanere condannati»); con la natura speculare, bloccata, mortuaria dei numeri gemelli; tanto da dover riconoscere: «gioco con le figurine», «gioco con le parole», «Signori giudici ammetto: GIOCO», pur di inseguire una cabala fonetico-numerica che insegue a sua volta, a suo modo, poco meno del Verbo. E invidia la felicità di una lucertola, il suo tranquillo passare dal sole alle tenebre.
Tanto più destabilizzante è ciò che resta, dopo il gioco a levare, tanto più è convincente. Così “Buon Natale” allude forse solo alla fisicità di una nascita, senza il miele dell’abbraccio, del sorriso. La scala dei valori è sovvertita e sotterraneamente, artatamente, riconfermata. Neanche in prigione, ad esempio, si è al riparo dall’amore e dalla sua distruttività. Così, «Se provi a dirmi amore», a questo amore non si può che rispondere che «sono di plastica». È cambiata non la risposta, ma la domanda, messa in crisi la griglia di valutazione del mondo.
Contorsione, spasimo del senso. Forzato su assonanze e rime livide, su dicotomie e paradossi allucinati, il senso deraglia dai consueti binari e a volte salta fuori, se vuole, quando vuole, come un giocattolo a molla, a poco valendo la ricerca spasmodica. Decostruzione e ricostruzione, dunque, a volo di rondine, tuffata raso terra o alta nei cieli del senso. Anche l’ironia è una sciabolata di luce radente. Di rondini popola le sue pagine, Marina Pizzi, come di gatti, in un paesaggio che non ha nulla di idilliaco, per una voce che non ha nulla di lirico. Anzi, «la poesia quale disappartenenza», è fuoriuscita da sé, sguardo esterno ed estraneo.
Naturalmente ciò che tocca e riguarda il linguaggio, non può non toccare e riguardare l’io. La ricombinazione semantica è anche analisi, apertura, autopsia, dissezione anatomica e ricombinazione dell’io: una operazione Frankenstein. Una galleria di specchi deformanti aspetta al varco l’io e la sua vanità. La miserevole, anzi miserrima, stima di sé apre vuoti incolmabili. E la vita? Potrebbe ben stare in un museo: pietrificata, gesso o marmo che sia, è immobile e gemente nella sua immobilità. Pure l’immobilità, sia spaziale, claustrofobica, asfittica, che temporale, è il migliore dei destini possibili. Più che la progettualità, proiezione verso il futuro, più che la memoria che contesse atrocità e mette in scena una fiera delle crudeltà, è desiderabile un tempo fuori del tempo, isolato come uno scoglio. Ma sopravvive qua e là una speranza, un anelito di baci, riaffiora la pietas, risorge, a tratti, un’intimità accorata.
Altrettanto naturalmente ciò che tocca e riguarda il linguaggio non può non toccare e riguardare il mondo: «L’unità del globo è un emistichio del verso». E il resto? Il silenzio, l’afasia, la spaccatura del mondo sono incombenti. «Cristo, se esistito, è morto invano»: così Marina Pizzi fa rotolare la pietra tombale: sepoltura o Resurrezione?
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