Nadia Chiaverini - Sull'orlo della gioia e Il tempo della melagrana
Se avvicinarsi alla poesia richiede di entrare in sintonia con l’autore, di cogliere le ragioni che quella poesia hanno generato e la forza con cui è stata impressa nella pagina, ritrovarsi tra le mani un testo bifronte comporta un duplice impegno: rinvenire in ognuna delle raccolte lo spirito intrinseco, il senso e la forma del messaggio poetico, senza indulgere a confronti, rintracciando invece le peculiarità di ognuna, di ognuna la vis comunicativa. In Poesie da una stanza, sezione di Sull’orlo della gioia, il prorompere dell’urgenza espressiva si condensa in una calma inaspettata, quasi stupita, a lenire il fragore silenzioso impresso al vivere dalla emergenza pandemica. Impossibile non sentire nel verso Tutto è calma, (domenica delle Palme 2020), un’eco, rovesciata, dei versi di Sandro Penna (Nel cuore è quasi un urlo/ di gioia e tutto è calmo). Lì il cuore è in tumulto, quieta la realtà esterna, il mare. Qui il disordine è fuori, in una realtà stravolta che induce per contrasto a una quiete dentro che fa assaporare cose considerate prima solo di sfuggita (i segni dell’oro della luce/ che filtra tra le tende) per ripartire dalla totalità delle cose/dall’uno-tutto, nella dimensione emotiva della meraviglia che non si rassegna, e porta, con un manifesto senso di stupore, ad abituarsi ai silenzi/trascinare i passi tra le mura della casa…/sfogliare libri ingialliti. Così si affaccia sull’orlo della gioia-urgente/la vita redenta dal sonno. Espressione questa, sull’orlo della gioia, che pure rimanda a qualcosa di conosciuto, a quella montaliana felicità raggiunta che sta in equilibrio precario sul fil di lama, a sottolineare l’incertezza stessa del vivere, dei traguardi raggiunti e mai sicuri, mai univoci per tutti. Se “scrivere è un processo di rivelazione” come afferma Raymond Carver, ecco che la rivelazione diventa esplicita nella sezione che dà il titolo a tutta la raccolta. Nei versi, bellissimi, Serve/indugiare sul ciglio del precipizio/per decidere il salto e rinascere, c’è quasi una dichiarazione di intenti e di poetica, un farsi lirico e intimistico del processo creativo (Ascolto le intuizioni/l’ispirazione/l’impeto alla gioia) sperando di essere ancora in tempo/per la cura. È parola ripetuta gioia, sguscia come da una burrasca estiva quando il sole…si affaccerà di nuovo, e osare la gioia è la sfida, l’attesa di un qualcosa di nuovo in una donna sfiorita, perché se dilaga la gioia./Dilegua il dolore.
È una scrittura pacata, essenziale, quella di Nadia Chiaverini, scarna eppure incisiva e dai contorni netti che si nutre di attimi del quotidiano colti con rapidità (miagolio del gatto, i ciclamini rosa sul davanzale) ma al contempo rivela la tensione a una trascendenza che basta un latrato in lontananza a rendere impossibile, perché s’impiglia nella trama/il farsi dei giorni… intralcio/nel cammino della dimensione eterna.
Ha altra voce Il tempo della melagrana. Lo scavo interiore si fa profondo, doloroso, si afferma l’inevitabile esistenza del dolore (niente chiedo al dolore/solo che sia vero), ma nello stesso tempo si invoca il diritto a essere felici (io voglio essere felice), come in un grido, un urlo di notte…quando arriva l’ansia, che attraversa l’anima in cui anche un gesto inconsapevole e incolpevole lascia un segno (mi dispiace ho ucciso/un ragno nel sonno). Le cose diventano veicolo di manifestazioni dell’esistenza su cui il tempo lascia tracce di memoria, rimpianto, nostalgia, sgomento. La coperta a quadri della mamma, il ditale della nonna, la camicia da uomo, la ciabatta nera infradito parlano, sono oggetti che raccontano, si sedimentano negli anni e nei giorni, emblemi di un continuo fiorire di emozioni che tracimano e trovano requie forse nella parola poetica che lenisce il dolore perché lo sublima senza cancellarlo. E come agli esseri umani, il dolore appartiene a tutte le creature, al piccolo topo che giace sdraiato/ sulla schiena fermo atterrito, al passero disperato nel cielo scuro. E perviene a un livello altissimo di desolazione e sgomento in quel qualcosa di rosso/cullato tra le onde che si consuma in un respiro senza preghiere.
Una ferita rimane perennemente aperta, continuamente lacerata dagli artigli di un drago, metafora in cui figura forse la lotta con se stessi, o con la vita, o col mondo, un drago che non muore, che talora si assopisce e reclama attenzioni e cura per svanire, un drago che non sarà la lama a uccidere, ma la pazienza, la paziente ricerca della conoscenza.
Su tutto questo, tuttavia, impera, come azione salvifica, la scrittura
Magia e consolazione
la scrittura
come guadare un fiume
o arrancare con fatica
dentro una caverna oscura
finché l’altra riva appare
o in fondo alla strettoia
la luce.
perché, e qui torniamo alla silloge Sull’orlo della gioia, c’è bisogno di ascolto, di sé, del mondo, degli altri, di uno sguardo amorevole/che accarezza e cura. Quale miglior ascolto allora di quello che genera la parola che resta sulla pagina a parlare?
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