Popolazione del reale e dell’irreale. Su “Animali fantastici dell’ebraismo” di Stefano Iori
La storia della mitologia umana è segnata dalla presenza dell’elemento animale. Anche quelle che potremmo considerare le “mitologie” moderne – costruite da videogiochi, cinema, fumetti, eccetera – non fanno eccezione (e spesso infatti rimandano alla mitologia “classica”, basta pensare al Thor della Marvel): l’animale (fantastico o meno) è un elemento ricorrente, in alcuni casi strutturale e necessario (vedi Pokémon o Digimon), e rivela all’uomo l’esistenza di altri esseri, esseri che paiono appartenere a universi differenti e inconciliabili col suo.
Studiare la presenza – e la storia – di alcune creature fantastiche all’interno della cultura ebraica è il compito di uno degli ultimi libri di Stefano Iori, intitolato appunto Animali fantastici dell’ebraismo (Terra d’ulivi edizioni, 2020). Per la precisione, Iori si sofferma su quattro figure – Ziz, Léviathan, Behemoth, Shamìr – che fa corrispondere ai quattro elementi cosmologici (rispettivamente, aria, acqua, terra, fuoco). Lo scopo del volume, dunque, non è solo quella di tracciare una storia (bibliografica e, in senso lato, biografica) di questi esseri, ma anche e soprattutto quella di misurare la loro caratura simbolica, quale spazio occupano nell’immaginario – quindi nel serbatoio di strumenti interpretativi della realtà – partorito dalla cultura ebraica.
Il caso di Léviathan mi sembra quello più ricco e denso. Si tratta infatti di un mostro che ha avuto molta fortuna nella storia della cultura, non solo ebraica. La traccia più nota di questo riverbero è certamente l’opera di Hobbes, che evoca il mostro marino fin dal titolo e ne fa una metafora politica destinata a grande fortuna. Il Léviathan corrisponde infatti a una figura di grande mole e violenza, che ben si presta ad allegorizzare un potere incontrollabile, supremo, ben al di là delle forze umane. Mitologicamente, Iori ne individua del resto l’origine divina: il Leviatano sarebbe nato come dimostrazione della potenza di Dio, quindi come «contraltare maligno del Creatore» e, allegoricamente, come «coesistenza possibile del Bene, che viene dal Creatore all’atto della nascita di ogni genere umano, e Male, che il Divino ci pone dinnanzi come trasformazione dell’elemento liquido che di fatto è atto iniziale della vita di ciascuno».
Si vede già da qui come l’impegno di Iori sia quello di incrociare ragioni scientifiche – le creature sono sempre confrontate con possibili corrispettivi zoologici – e ragioni immaginative, mai messe in secondo piano rispetto a quelle “razionali”, e sempre sottolineate nella loro importanza gnoseologica. Come il discorso sul Male del Léviathan non viene staccato dal discorso specifico sull’acqua, il Behemoth – equivalente terrestre del Léviathan – non viene dissociato dalla sua natura bufalina, fertile, mammifera. Anche al Behemoth spetta infatti una simbolica dell’ingombro, della potenza e della foga corporale, ma – viste le identificazioni possibili che Iori riporta (elefante, ippopotamo, bufalo…) – con una specificità che non rimanda più all’acqua, bensì alla terra, e quindi alla «golosità» (del «mangiare l’erba»), all’«impigrirsi», alla «sfrenata sessualità». Un monito a dire che «comportandosi come la bestia delle bestie, l’uomo supera in negativo il suo stato di animale intelligente e discende al grado di fiera».
Con Ziz si chiude il triangolo delle grandi bestie. Sorta di fenice gigantesca, Ziz è la creatura dei cieli, ha facoltà di controllare con il suo grido gli altri uccelli, e governa quindi lo spazio dell’aria. Anche qui Iori ragiona sulle identificazioni scientifiche e culturali (in relazione cioè con gli altri miti, a partire proprio dalla Fenice egizia) e sulle etimologie, legando ziz a zaz, cioè a un verbo di movimento. Nella simbologia, anche a Ziz spetterebbero quindi un’imponenza e una superiorità (gerarchica, sugli altri uccelli) connaturata a una grandezza di mole, ma, a differenza di Behemoth e Léviathan, egli obbedirebbe più fedelmente a un’idea di dinamismo, di «variazione», che dalla dimensione fisica (dell’aria) si estende anche a quella intellettuale e conoscitiva («lo Ziz è ogni cosa capace di oscurare la mente: così come con le sue ali l’immenso uccello adombra il sole, con la sua forza interiore limita la potenza dell’intelletto»).
Un caso a parte è invece quello di Shamìr, a cui Iori dedica l’ultimo capitolo. L’origine e la natura di Shamìr sono infatti controverse, e dalle fonti ebraiche non emerge chiaramente se il cosiddetto “laser di Mosè” (chiamato così perché in grado di tagliare le pietre) abbia natura animale o vegetale o di altro tipo. Qui l’autore è mosso, perciò, anche dal desiderio di far quadrare uno schema, dando a Shamìr un ruolo all’interno del quartetto delle bestie/elementi (quello del fuoco). L’ipotesi più discussa è infatti quella di Lia Mangolini, che riconduce Shamìr a un liquido corrosivo, prodotto dalla lavorazione di vegetali (acido fluoaretico, per la precisione, generato dal Dichapetalum cymosus). Iori propone un’ulteriore lettura immaginando che il liquido sia secreto non direttamente da un vegetale ma da un animale, un verme, che di quel vegetale si nutre.
Al di là delle ipotesi, comunque, l’aspetto più interessante del libro riguarda in generale l’intreccio tra “filologia” e simbologia. Da una parte, infatti, Iori procede con lo studio delle occorrenze e delle citazioni (soprattutto talmudiche) che rimandano ai quattro animali, e – a dimostrazione della presenza continua degli animali fantastici nell’immaginario umano di cui si diceva prima – pone in calce a ogni capitolo dei paragrafi che rintracciano la presenza dei quattro animali all’interno delle arti più svariate, dalla letteratura alla pittura, dal fumetto alla musica metal. Dall’altra parte, ma complementarmente, c’è l’idea che l’animale fantastico obbedisca a una necessità umana di rappresentazione («Sentiamo e subiamo il fascino di mostri favolosi e leggendari che visitano i nostri sogni o fanno irruzione nel nostro immaginario») dell’alterità («rappresentazione del negativo e nel contempo della bellezza»).
Si tratta, insomma, della “presenza di qualcosa” nell’abitazione del mondo, la percezione per l’uomo di non essere solo, e di essere all’interno di un cosmo abitato da esseri a lui dissimili (senza ragione, potremmo dire, senza linguaggio). Questa “rivelazione del Vicino” è l’indice di una scoperta del diverso, dunque dell’incapacità di intendere le varie maniere di intendere il mondo, che proprio in quanto animali – de-pensate, in un certo senso, ferine – ci attraggono. L’interesse del testo di Iori non sta quindi solo nello studio specifico di una fetta della cultura ebraica, ma anche in un approccio e in una scoperta: che l’interpretazione simbolica sposa e completa quella scientifica; che il mondo è popolato dagli esseri, e all’uomo torna perpetuamente la necessità di comprenderli.
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