Puoi essere mio padre? Tulga e Tuntuulei
Tulga, cresciuto in mezzo alle immense distese della campagna mongolica, vive da tempo in città, il suo impegno e la sua determinazione lo hanno fatto diventare direttore di un albergo a cinque stelle. Ha una relazione con una donna, che gli ha nascosto sino ad ora di avere un figlio. Tulga è un adulto ancora giovane, intuiamo dalla vicenda successiva che ha rotto con il passato e non desidera recuperarlo. Le circostanze tuttavia lo costringono a farlo. L’uomo che, pur non essendogli padre, lo ha allevato come se lo fosse, sta per morire e ha bisogno di vederlo, di averlo un’ultima volta accanto a sé. Tulga non vorrebbe tornare, ma la coscienza lo obbliga.
Potente e al tempo stesso divertente è l’immagine iniziale del film “L’ultima luna di settembre”, opera prima del regista Amarsaikhan Baljinnyam, candidato per la Mongolia all’Oscar 2023, appena uscito nelle sale cinematografiche. Un ragazzo in abiti tradizionali sul suo cavallo tiene sospeso un bastone altissimo a cui ha legato uno smartphone, con cui cerca faticosamente di trasmettere la notizia della grave malattia del padre a Tulga, interpretato dallo stesso regista. Di fianco a lui, su un vecchio carro, l’anziano uomo attende la conferma, che Tulga stenta a dare. La conversazione si interrompe senza una risposta affermativa.
L’intensità dei colori delle distese celesti, ora rannuvolate, ora azzurre, che incombono sul paesaggio, il blu, il rosso, il giallo, l’ocra, la luce rosa intenso del tramonto sul lago, lasciano senza fiato.
Tuntuulei ha circa dieci anni e sa cavalcare come nessun altro, sa lottare con abilità, nonostante il fisico gracile, ma si annoia. La sua giornata si svolge al seguito del gregge, o, in alternativa, svolgendo compiti assegnatigli dagli anziani nonni.
Steppa desertica, distese erbose e campi di frumento a vista d’occhio, ruvide colline, montagne innevate, mandrie di cavalli che sembrano rincorrere il vento, laghi che riflettono il cielo di nuvole basse, multiformi. La notte così traboccante di stelle da perderci lo sguardo e immergerci l’anima.
Tuntuulei sa fare ogni cosa. Tenere il gregge, raccogliere il frumento, sopravvivere al caldo, sfuggire agli inganni degli adulti, aiutare i nonni, e tanto altro. Quando incontra Tulga, tra loro nasce una sfida: vuole essere lui l’adulto, esperto del luogo e delle attività che vi si svolgono. Dalla sfida sfrontata si passa presto alla condivisione solidale, infine all’amicizia. Tuntuulei avrebbe tanto bisogno di un amico-padre, non lo ha mai avuto. Tulga sa inventare giochi, pescare, rendere interessanti i momenti della quotidianità. “Ti prego, ti prego, sii mio padre!” sembra dirgli ad ogni sguardo il ragazzino.
Passano i giorni. Tulga resterà finchè il lavoro dei campi, rimasti incolti dopo la morte del padre, non sarà terminato. Respira atmosfere dimenticate, fa amicizia con due tipi balordi, costruisce una torre in cima alla collina, dove si può salire per telefonare (alcune delle scene più divertenti si svolgono proprio sulla torre, ma anche quelle più tristi). L’idea di costruirla è di Tuntuulei. Assieme i due sono una forza.
Tuntuulei è analfabeta, sua madre lavora in città e non si fa mai viva con il ragazzo. La nonna progetta di mandarci anche lui, perché possa ricevere un’istruzione.
Viene il giorno dell’addio necessario, il dolore del bambino è immenso, lo rende rabbioso e cupo, poiché resterà a combattere col nulla di un’esistenza monotona e solitaria. Tulga è straziato dalla intensità dell’abbraccio di Tuntuulei e dalle forsennate richieste di lui di restare, ma non cede. Non voleva tornare nella steppa, ha svolto il suo compito di accudire il padre negli ultimi momenti della sua vita e di falciare i campi. Ora la città lo richiama con forza. Sarà meno solo di Tuntuulei? Si incontreranno? Non si vedranno mai più?
Il regista non ci offre soluzioni narrative originali, si limita a raccontare due solitudini, ben rappresentate dai due bravi protagonisti. Quella di un monello, apparentemente arrogante, ma in realtà, come ogni bambino, fragile e bisognoso di riconoscimento e di affetto. Quella di un adulto, che ha abbandonato lo stile di vita con cui è cresciuto per entrare in un altro, molto diverso. Il richiamo della tradizione, l’incanto del paesaggio, sono potenti. Ma la società è cambiata, il presente e il futuro hanno il profumo della città, dove ci si accultura, dove si fanno gli affari. La steppa diventerà un luogo attraente per i sempre più numerosi turisti, per questo, aggiungo io, si è ultimamente ampliato l’aereoporto di Ulan Bator. Per questo gli abitanti forse stanno abituandosi a lasciar fare delle loro vite un’attrazione turistica, un po’ per noia, un po’ per curiosità. Un po’ perché il mondo va in questa direzione.
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