Tracciature di Lucio Macchia

Tracciature di Lucio Macchia

diVincenzo Crosio

‘Non le tracce. Non i lasciti. Il tracciare, solo il tracciare. Nell’incidere i segni, nel dirsi: «Siamo qui e l’erba è alta, il vento pare un respiro». Nel dirsi così – nel dire: «Un vibrato di foglie, una danza» – come altri prima di noi – sentirne l’eco, sfiorarlo, porgerlo avanti. E vivere’

La nuova opera poetica di Lucio Macchia è un semplice dire cose che sono di una percezione di se e del mondo invece multiforme, quasi un manuale di come si vive dentro la contemporaneità avendo il proprio corpo come testimonianza essenziale del percepire di essere nel mondo. Il che vuole dire molte cose, che le nostre Tracciature sono glifi del vivere del morire, di cercare scienza la dove c’è apprensione, desiderio forse amori e seduzioni. Lucio Macchia a quel che mi risulta non è un filosofo ma questo non dice molto tranne che la sua poesia invece è indagine sapiente di questo suo esserci nel mondo, in una meraviglia continua, ma assolutamente consapevole. Il suo procede aritmico, forse solo il cuore suo che batte e batte contro il vento di questa realtà che gli sembra vera ma assurda. Una estetica fenomenologica che in pochi oggi esprimono in Italia.Forse perché i suoi versi sono umili fruscii di parole come di canne al vento. Senza sprechi psicologici egli, l’ille avanza con una sola direzione: il suo periscopio sapiente, colto, senza ostacoli narcisistici come se i passaggi migliori fossero dettati dall’orfico vedere di questi poeti surreali, un pò latineggianti del continente ispanico americano. Che rimuovono il verso come tracciature di identità non facili, assolutamente. Ma questo indagare alla maniera di Merlau-Ponty, riscopre anche un romanticismo primordiale. Non è parola che dica di questo orfismo di fondo, è un insieme di andare del verso secco, bruciante ma in qualche caso ‘desideroso’, quasi affettuoso, quasi amorosa cura dei mortali. Su questo piano sembra che Lucio Macchia desideri, chiami un empireo di anime divine, nel senso estetico del termine. La sua metafisica del reale è perfetta da questo punto di vista. Un estetismo raffinato e dichiarato:

In fondo agli occhi

 del pittore, la grande

tuia fiammeggia 

tra pareti di cielo: 

le sue punte intinte 

di giallo a custodire


un segreto – aureo –

 d’insistenze poetiche. 


(L’adesso, 

in piena luce: 

i volumi delle cose 

che s’offrono 

a noi: persino 

le ombre 

– sparse a terra – 

solidificano). 


Tutto è “questo”,

nient’altro che “questo”

Estetismo nella vulgata provinciale viene relegato al dandismo dannunziano anziché posto in essere dell’‘aurea sacralità’ di Mallarmè, cui qualche volta Lucio Macchia s’avvicina per linee e tracciature vissute nella immediatezza di una natura o semplice visualità che gli viene incontro. Altra metamorfosi del reale niente male, niente male. Una fisica ed una metafisica in cui realtà e visione si fondono in meditata riflessione, sapiente, mortalmente sapiente. Quasi che il detto attribuito da Heidegger ad Hordelin fosse quasi naturale talento ed invece non è così, o è così come metà della misura-: il suo (dell’uomo) abitare il mondo è un abitare ‘poetico’. Che vuol dire? Vuol dire arrendersi all’idea che il mondo abbia una sua autonomia e ce ne parli quasi natura benigna. In fondo ciò che guida la mano di Lucio Macchia in queste tracciature semiotiche è una perfetta sapienza di questa divinità del mondo. E se gli dei fossero tornati? Se non proprio gli dei almeno una loro sintesi apofatica, una affermazione di qualcosa che definire la grazia non è scandalo?

La mia morte

 è sparsa tra i rami

 oltre il ciglio 

della strada

– nella rete viòla  

del bosco.

Qui mi trattiene 

un lembo d’asfalto,

i miei passi,

il su-e-giù dei respiri,

il battere delle vene.

Non un “io” 

ma un gesto

 che fuori di me 

accade – forse 

a un incrocio 

d’occhi e lampi 

– dove ti scorgo.

 

E poi ancora:


Da Orange, 

dal passato, 

su uno scaffale 

una testa d’Afrodite: 

la immaginavo

– souvenir da turista – 

ornare un’idea di me.

Ma l’inganno curioso 

dei destini mi trova

 – qui – sperso, 

viandante di nessun io.

 Rigida Afrodite 

– compiuta – 

un po’ virile 

un po’ ridicola: 

«Chi guardi adesso 

dal bordo della storia,

 a chi pensi?». 

Un altro che muta 

sempre e neanche 

– di questo – 

sai sorridere 

e fissi invece

 – quanta serietà! –

 quel flebile “me” 

e non lo sai. 

Questo minuto 

flutto, estraneo

 gesto – e fragile – 

d’un vivere.


Eh insomma meglio di questo si muore, dico una bestemmia che Lucio Macchia mi perdonerà, ma il suo andare viandante è proprio dei poeti puri.



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