Sulla poesia di Alfonso Guida
La poetica di Alfonso Guida non è la nostra, così come scrisse Franco Fortini in un saggio introduttivo alle poesie di Paul Eluard. E non è la nostra per tante ragioni, prima fra tutte la separazione, nettissima, fra vita vissuta, la nostra, in una realtà frenetica e caotica, sempre nel vortice, nei viluppi degli impegni e degli accadimenti quotidiani, e vita vissuta dal nostro poeta, laddove il suo svolgimento è essenzialmente scandito dallo studio e dalla, talvolta disperante, contemplazione di una Lucania ben lontana da quella raccontata in Contadini del Sud da Rocco Scotellaro e che tanto fece innamorare Amelia Rosselli sicché la stessa ebbe a dire di aver goduto della vista della verità.
Se in Scotellaro la Lucania edifica la casa dell'anima e il contadino si fa metafora di una sana norma umana, in Alfonso Guida questo non accade più perché i contadini, e la loro robusta cultura, o sono vecchissimi o sono morti. Guida abita la Lucania come l'angelo che veglia le soglie di una chiesa senza fedeli, abita la crepa come un padre che regna sugli ultimi scarti di un cibo che è il santo nutrimento di un figlio immaginario. E chi è il figlio di Guida? Un Gesù resistente nel cardo, nel filo di bava di una lumaca, nel ringhio del vento che fa urlare Porta Piazzile. Un Gesù ribelle che nasconde le sue fiaccole in fondo alle gole delle caverne, per gioco, perché è un bambino e i bambini si divertono così, perché un bambino vuole essere scovato solo per dirsi salvato da te, mentre ti sta salvando donandosi, lasciandosi scoprire.
Leggendo l’ultimo libro di Guida Conversari (Roundmidnight, 2021) ci si sente relitti portati dalle correnti. Una poderosa piena nel succedersi di versi, un Virgilio agitato nello spirito insomma, e di prose, vere e proprie dediche ad interlocutori più o meno identificabili, o dialoghi intrattenuti con il paesaggio che è l'anima stessa dentro cui si getta il poeta, riconoscendosi o negandosi.
Conversari è un dialogo fecondo tra ciò che si sottrae e il dono. Fra l'invisibile e il manifesto. Fra il singolo e la stirpe. Guida è solo e la sua solitudine è quella del ciglio toccato da nessun passo. Non una semplice assenza di compagnia, che pure l'autore lamenta, ma la solitudine dell'orfano che ordina ai giorni di farsi padre e madre, alle ore di concedersi sorelle di cammino, agli anni di vegliare l'altare a cui il poeta giungerà per lo sposalizio finale. E in una solitudine così non possiamo che riconoscerci tutti, anche i più abituati alle orde.
Nella descrizione di Guida il tempo incontra il senza tempo in una intersezione che è, come scrive Eliot nei Quattro quartetti, un'occupazione da santi [...] in una vita tutta spesa per la parola che radica la sua volontà nella fatica del guadagno e della perdita, che è poi la legge di tutte le esistenze: mentre si posano a terra gli anni, si guadagna in chilometri la meta.
Quella di Guida è una partitura dalle geometrie perfette, dalle ritmate scansioni che nel loro avvicendarsi portano in braccio il netto grido della salvezza che è salvezza della verità della parola. E mi viene in mente Scipione quando in una pagina dei diari scrive: Aspetto la mia salvezza, aspetto la mia salvezza. [...] Che posso fare per sfuggire a questa rovina? E qui potremmo usare la biografia del poeta e ricondurre, se non ridurre, le ragioni della sua poetica a un così persuasivo maledettismo cui talvolta sembra egli stesso concedersi per debolezza. Ma la poesia di Guida è, lasciandoci affiancare ancora da Scipione, parola che chiede la forza per vincere, e quindi per vincere la stessa malattia o almeno fare in modo che non prevarichi le ragioni della scrittura. Presto mi prendi per mano e mi aiuti a salire, scrive Guida. È già una preghiera, se non una dichiarazione di poetica. La resa della sillaba che suona sulla bocca amata. La sete, che pure torna a più riprese, insieme all'alba, altra traccia di cominciamento, genesi, si compie nel salto del ghepardo che unisce due stelle per fare una sola luce, parafrasando un distico di Conversari. Guida è nel paesaggio, o il contrario, ma non è solo. La parola brilla sulla sua ferita, e chiede il tocco, una terra del riposo che è sempre il volto di qualcuno.
Io sono verticale, scrive Sylvia Plath, ma preferirei essere orizzontale. Guida in Conversari fa coincidere le due aspirazioni, e verticale lo è ogni qual volta la parola asseconda la sua vocazione di significato, orizzontale perché, oltre alla forma che assumono i versi, spesso diluiti fino alla prosa, e già così, visivamente, si ha l'impressione di procedere per sentieri, l’autore non dimentica di considerare un "tu", sia esso il lettore o un più segreto destinatario, è in dialogo con qualcuno, lo è frontalmente e, mi verrebbe da dire, fraternamente.
Come se amore fosse / pormi la tua stessa domanda, scrive il nostro in Conversari. Amore come viaggio verso le braccia di qualcuno, in questo Guida è ancora religioso, ma non nella forma più rigida e punitiva, ma nel senso della scoperta, della possibilità. Primalba: solo tempo in cui cammino, e ancora: L'occhio è vuoto e segue i pochi passi di uno spavento. Non è un vagabondaggio quello che opera Guida con la parola, ma un sano dono del ritorno. C'è stato il viaggio, il viaggio lo ha cambiato, qualcosa ha perduto, molto ha guadagno. E cosa ha guadagnato Guida? A me verrebbero in mente i versi di Paola Febbraro quando scrive: Dio mio come sono cambiata / sono la stessa di quando sono nata.
Le falde di tenerezza che Vittorio Reta sembra aver dimenticato cammin facendo, Guida nel viaggio le riconquista perché nascendo vecchio, vecchissimo, anzi “antico”, scavalcando cioè tutte le categorie temporali possibili, come una sorta di Benjamin Button finirà feto, filamento, seme.
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