Tante città e tante voci
"Donne" 9 di Elio Scarciglia

Tante città e tante voci

diRaffaella Terribile

Nel grigiore e nella pioggia novembrina torniamo ogni anno e ci fermiamo davanti ai marmi freddi e uguali come paratie di una diga invalicabile che ci separa per sempre da loro, e quel silenzio insinua il dubbio del nulla. Affetti filiali, amori, passioni, speranze, sogni, esistenze ancora da scrivere: erano così vivi, e ora pesa come il piombo questa pace, questo rumoroso silenzio dell’assenza. Non esiste un altro luogo in cui figli anziani riposano accanto a giovani padri e madri ragazze, con la pelle liscia e le gote fiorenti. Ci osservano attraverso la materia fragile di una patina stampata, illudendoci che quello sguardo opaco contenga un messaggio per noi, dall’altro lato della storia, rimasto impigliato nelle pieghe del tempo e approdato in un presente frenetico e distratto, indifferente anche alle voci dei vivi. Sembra tutto sospeso e definitivo nel silenzio di una città popolata da volti strappati improvvisamente alla vita oppure segnati dall’orografia corrosiva del tempo che consuma corpo e memoria. Le pietre, allora bianche e pulite, appaiono ora erose e opache, le foto sbiadite come il ricordo e il dolore di chi resta; qualche volta non rimane più nessuno, i nomi si staccano, i volti si cancellano. Per gli antichi queste erano le “città dei morti”, separate da quelle dei vivi, anche oggi punteggiate da cipressi, con radici ben più pietose di quelle dei pini, protese a solleticare le lapidi, a svellere dalla loro posizione antichi sepolcri, come succede in molti cimiteri moderni violati dal tempo e dall’incuria dei vivi. Un’abitudine antica arricchiva le tombe di corone di fiori, libagioni, canti, diversamente dai freddi compianti di rito nei giorni della pietas cristiana, dove le erbe incolte si allargano a colonizzare le vecchie pietre e dai polverosi fiori recisi si esalano sospiri crepuscolari, pronti a disperdersi con un soffio di vento. Per molto tempo ho rifiutato le memorie incise nella pietra: i non viventi per me si trovavano altrove, non in uno spazio fisico recintato. Gli anni hanno portato lutti familiari, spingendomi oltre quei cancelli tanto spesso evitati, alla ricerca, forse, dell’eco lontana delle voci che la memoria si ostinava a non restituirmi. Oggi ho imparato ad accettare quel dialogo silenzioso con chi vi giace consegnato alla fragile memoria dei vivi. Oltre San Lorenzo, i cipressi svettano nel blu, annunciando verdi distese, vicine e lontane allo stesso tempo, sull’invisibile crinale tra noi e loro. Una mattina di inizio estate sono entrata in quella città enorme di dormienti, anzi, nella somma di tante città, dove i destini si sono a volte incrociati, dividendo gli stessi spazi della vita, molto più spesso si sono avvicendati, tracciando – una sopra all’altra – le immaginarie linee di esistenze lontane nel tempo: generazioni addormentate in un letto di vegetazione e di marmo, lambito dal traffico della tangenziale Tiburtina e dalla linea ferroviaria. Forse conviene non sentirsi turisti di passaggio e lasciarsi guidare da un divagare senza meta nelle tante storie ormai dimenticate. E mettersi in ascolto. 

Il percorso si snoda in salita lungo un piccolo colle, dove riposa anche Filippo Severati, l’inventore della tecnica grazie alla quale tanti volti mi osservano come se fossero vivi, così belli che qualcuno a volte li ruba, nonostante la costante esposizione alle intemperie e al sole estivo. Una signora si affaccia per guardarmi triste. Sul suo centenario ritratto si vedono i segni delle schegge del bombardamento che ha colpito duramente San Lorenzo, nel 1943. In mezzo ad una foresta di vecchie lapidi scurite dagli anni noto il ritratto di due fratellini, Giacomo e Candida, morti nel settembre 1860, probabilmente di difterite. Il più grande è vestito alla marinara e con un’espressione sicura abbraccia la sorellina, a mostrare ai genitori che adesso è lui a prendersi cura di lei, vicini anche in Cielo. La bimbetta ha una coroncina di fiori in mano, i fiori dell'ultimo tristissimo saluto, mentre guarda spaurita il mondo di qua spaesata per il grande cambiamento. La stessa espressione che ritrovo in Luigino, morto verso il 1870. Con i suoi occhioni sembra seguire chi passa, l'epitaffio non è più leggibile, ma il ritratto è bellissimo: il piccolo sembra triste, stupito, dolente come chi ha subito una separazione violenta dai suoi cari e deve ancora capacitarsene. Immagino lo sguardo di mamma e papà quando venivano a trovarlo e lo vedevano così desolato. Da molti anni è anche solo, senza nessuno che venga a trovarlo. Anche le tombe muoiono, perché servivano ai vivi che poi, un giorno, non ci sono più. Ogni tomba è una storia interrotta nel tempo. Come quella di Lina Cavalieri, morta per un bombardamento nel 1944. La donna più bella del mondo, la migliore incarnazione di Venere sulla terra, secondo D’Annunzio, riposa adesso sotto una pietra macchiata dal tempo, abbandonata e mutilata delle originarie decorazioni in bronzo. Non c’è neppure un fiore. Mi colpisce la fotografia di una ragazza molto giovane, il nome e la data non si leggono, ma l’abito suggerisce la fine dell’Ottocento: "Il fiore della mia vita sarebbe potuto sbocciare da ogni lato/ se un vento crudele non avesse appassito i miei petali/troppo presto. Forse per questo, nei giorni di aprile, in questo cimitero/i morti si raccoglievano intorno a me,/e si facevano immobili, come fedeli in muta preghiera./Non ho mai capito se fossi parte della terra/e i fiori crescessero in me, o se camminassi../Non conoscevo le vie del vento/ne' le forze invisibili che governano i processi della vita./Ora so" (da E.L. Masters, Antologia di Spoon River). Incontro Raffaella La Crociera, ragazzina nel 1954, poetina dal cuore d’oro, che dal suo confino domestico per una grave malattia aveva donato una poesia in aiuto agli alluvionati del Salernitano. 

Giranno distratta pe casa,
tra tanta robba sfusa,
ha trovato: ah! come er tempo vola,
er zinale de scola.
Nero, sguarcito,
Un pò vecchio e rattoppato,
è rimasto l’amico der tempo passato.
Lo guarda e come se gnente fusse
a quell’occhioni
spunteno li lucciconi,
e se rivede studente
allegra e sbarazzina
tanto grande, ma bambina.
Lo guarda e come un’eco risente
quelle voci sommesse: Presente!
Li singhiozzi, li pianti,
li mormorii fra li banchi,
e senti…senti…
pure li suggerimenti.
Tutto rivede e fra quer che resta,
c’è la cara sora maestra.
Sospira l’ècchese studente, perché sa
che a scola sua non ce potrà riannà.
Lei cià artri Professori, poverina.
Lei cià li Professori de medicina.

Chissà cosa si raccontano questi bambini per sempre nelle notti estive: li vedo seduti vicini sulle pietre illuminate dalla luna, a contare le stelle, gli anni che non hanno vissuto, sospesi tra il frinire dei grilli e il sussurro degli uccelli notturni. Tante storie che si intrecciano, talvolta, alla Storia. Come quella del piccolo Piero, che il 23 marzo 1944 doveva raggiungere il negozio dove lavorava come garzone, ma il destino lo volle vicino al carretto che conteneva l'ordigno, ormai innescato, che esplose in via Rasella al passaggio dei militari tedeschi. Incontro Trilussa, attirata da un sarcofago antico; sulla lapide scopro una breve poesia, che mi torna subito in mente:

C’è un’ape che se posa
su un bottone de rosa:
lo succhia e se ne va…
Tutto sommato, la felicità
è una piccola cosa.

Ripenso ai sepolcri antichi e a quelli moderni, alla richiesta ai vivi, ieri come oggi, di sostare un attimo e di rivolgere un pensiero a chi si trova dall’altro lato: in cambio c’è il dono silenzioso di una riflessione sulla vita, sul destino, sul senso del tempo. Come succede anche qui, oggi, tra le tombe del Verano, in mezzo a queste voci del silenzio, a questi sguardi che parlano. Che mi dicono: non dimenticarci.

Un giorno, con Alessandra, ho parlato di voi.

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