Transumanza
Piove ininterrottamente da giorni, ma non tira vento, il freddo vero non è ancora arrivato. Ion sta in piedi a margine del prato, avvolto in una cerata. Uno sbuffo di fumo esce da sotto il cappuccio, piccola nube densa che si dissolve in fretta a contatto con l’acqua. Cuba, un cane dal pelo lungo, raggrumato in fradicie ciocche, fa avanti e indietro smanioso di potersi dare da fare. Le bestie sono calme, chine sull’erba, intente a brucare il prato palmo a palmo. Ion le osserva impassibile, la sua figura riluce nella bruma dicembrina come un lucido pezzo di granito. Ovunque porti il suo gregge, il tempo pare fermarsi. Il pascolo è un mondo a sé, un francobollo di terra rubato al moto perpetuo e apparentemente senza senso di ciò che lo circonda. Un campo incolto e le morbide schiene di decine di capi bagnati e inzaccherati, fra i quali si stagliano i grigi profili di alcuni asinelli: questo è il mondo di Ion. Da fuori sembra muoversi da un luogo all’altro, invece è fermo. Il suo sguardo spazia da un estremo all’altro del proprio universo senza curarsi di ciò che succede al di là del confine: della vita nei cortili e sui balconi delle case, di finestre e portoni che si aprono e si chiudono; delle schiene curve di uomini e donne, sguardo a terra, che si avviano al lavoro alle prime luci del giorno; dei motori che s’accendono e delle auto che sfrecciano ininterrottamente una dietro l’altra sulla statale, fiume d’acciaio; delle abitazioni vuote che la sera si riempiono di nuovo, illuminandosi. Degli alberelli che brillano rapsodicamente nel buio.
Ion non conosce la fretta di quelle persone, i loro impegni, le loro attese, i loro lamenti, i loro eterni rimpianti. Conosce l’alba che, carezzando la terra, la sottrae coraggiosamente al rigore del sonno invernale. Conosce il tremulo richiamo degli agnelli, il sibilo paralizzante della paura di fronte a una minaccia che interrompe il canto silenzioso della notte.
L’universo di Ion ha inizio e fine nell’arco di tempo necessario a brucare il campo che gli viene permesso di occupare. Alfa e omega nell’arco di un giorno o due, anche meno. Una volta terminato, rimuove i pali e la rete, e con l’aiuto di Cuba raduna il gregge per condurlo altrove, dove ricomincia tutto da capo.
Per giorni non parla con nessuno e nessuno gli rivolge la parola. Le auto vanno e vengono dai box, puntuale come un orologio svizzero, un uomo mette in marcia la propria moto alle sei del mattino, avviandosi sotto la pioggia. A intervalli regolari la signora del primo piano esce sul balcone e sposta un vaso, sbatte la tovaglia, stende le lenzuola; dopo pranzo anche il vicino fa capolino e si fuma una sigaretta godendosi lo spettacolo di un gregge al pascolo a pochi metri da casa. L’anziano del piano di sopra separa con cura la spazzatura in tre diversi bidoni, poi torna in casa trascinando i piedi alzando le spalle per un brivido di freddo. La sera è un coro di luci, prime fra tutte quelle delle cucine. Nei soggiorni gli alberelli iniziano a lampeggiare, e pure le stringhe di lampadine appese alle ringhiere. Per Ion è giunto il segnale.
Torna alla roulotte col buio. Mangia un po’ di pane e formaggio ascoltando la radio, poi si corica sotto due coperte di lana. E’ tranquillo: c’è silenzio e le luci tengono le volpi lontane. E’ notte, ormai. Le luminarie brillano nel silenzio interrotto dallo scampanio diradato della martinella di qualche pecora che rumina ancora. Le altre sono immobili, dormono in piedi, pietrificate come le statuine di un presepe. Dorme anche Ion, Giovanni, che in base agli idiomi significa dono di Dio, Dio ha esaudito, il Signore è misericordioso. E lui nemmeno lo sa.
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