Un metodo pericoloso
Gaspare Canino, Ombra col sole a picco

Un metodo pericoloso

diCinzia Caputo

Solo il viandante che ha peregrinato nel suo infinito mondo interiore potrà accostarsi all’Anima, scoprendo che per anni altro non ha fatto che cercare Lei, poiché Lei è dietro e dentro ogni cosa. I viaggi, si fanno per cercare Anima e le persone si amano in quanto simboli di Anima.

C.G.Jung



L’incontro storico del 1907 fra Freud e Jung, successivo ai primi contatti  epistolari fra i due, iniziati da Jung proprio a proposito del “caso” di Sabina, sancisce l’inizio di una collaborazione scientifica che durerà proficuamente per numerosi anni, non  senza contrasti, fino alla definitiva “rottura”, che avverrà nel 1913, quando le loro strade si separarono. Nel film A Daugerous Method viene rappresentato questo incontro  

 a partire dal primo trattamento di Jung con la “talking cure”di  Sabina Spielrein. 

Fra le tante tematiche trattate  si può scegliere quella relativa “all’affektive rapport” che si instaura con il paziente: tema, fra l’altro, tanto caro a Eugene Bleuler, direttore e maestro di Jung al Burgholzli. 

In pratica, a questo livello, il film ci offre diversi spunti per riflettere su convergenze e differenze fra Freud e Jung circa il modo di porsi rispetto al “dolore psichico”, su come confrontarvici, su come mettercisi in relazione, su come prendersene cura. 

Jung ha con Freud, una base comune, ossia l’interesse per l’inconscio; tale convinzione, vi arriva sperimentalmente attraverso l’uso del reattivo di associazione verbale, che prova la sua esistenza e la sua influenza nelle malattie mentali, non ché  sul disagio psichico in generale. Allo stesso tempo entrambi si basano sull’ importanza per la cura del dialogo col paziente e della relazione per intenderne gli stati d’animo,  i vissuti, anche se ad una prima osservazione bizzarri, astrusi, illogici.  La necessità inoltre di dare ascolto alla storia personale, operando una ricostruzione psico-genetica che dia senso al presente indagando il passato.

Jung però già dagli esordi della loro collaborazione si discosta dal maestro quando, oltre che dare importanza al passato, si rivolge al futuro, in una chiave prospettica, ricercando in ciò che ascolta non solo cause per spiegare, ma anche fini per comprendere, intuendo che nell’inconscio non si cela solo la storia di ciò che è stato, ma si può scorgere anche una intenzionalità che si esplica verso la realizzazione di ciò che si è, attraverso un’esperienza di profonda trasformazione interiore.

  Jung pone al centro del suo lavoro il malato, non la malattia, virando da una psicopatologia oggettiva ad una soggettiva,  comprendere e non spiegare.

Jung e Freud provengono da esperienze professionali profondamente diverse, Freud infatti, è neurologo e tratta pazienti nello studio privato, affetti prevalentemente da disturbi dell’area nevrotica, mentre Jung è psichiatra e lavora in ambito ospedaliero, dove la prevalenza della patologia è di tipo psicotico. Per questo Jung  ipotizza anche una diversa eziologia nei disturbi, non solo ed esclusivamente di natura sessuale.

Per l’uno il fine della terapia è la risoluzione dei sintomi,  per l’altro è la trasformazione della personalità. Per Jung, attento alla storia del paziente, l’importante è saper comprendere, attraverso l’immedesimazione, il modo di essere al mondo del paziente, il suo oggetto di studio è l’esperienza psicopatologica vissuta dall’individuo.

  Per Jung quindi, già dall’inizio della sua esperienza di psichiatra, ciò che conta è     

andare oltre il modello organicista della psichiatria accademica,  egli considera che la psiche non è un mero epifenomeno del cervello, ma che i fenomeni psicopatologici delle malattie mentali non hanno unicamente una origine fisiologica. 

 Per indagare  l’origine psicogena dei disturbi mentali è necessario mettersi in gioco in prima persona, per capire, comprendere, interpretare e non limitarsi alla mera catalogazione dei disturbi (nosografia). La reale comprensione del vissuto del paziente può essere raggiunta solo per mezzo della soggettività nella diade terapeuta-paziente, per cui l’elemento soggettivo non può mai essere eliminato. 

 L’esperienza psicopatologica è per il paziente un fatto psichico, importante e reale quanto un fatto fisico e, quindi, come tale è la sua verità,  ciò che vale è il vissuto del fenomeno, cioè la sua realtà psichica. Il mondo interiore del paziente è il suo Mondo, essere consapevoli che non esistono solo cause psichiche, ma anche fini psichici. 

Per tutto questo bisogna essere capaci di sospendere il giudizio sulla  verità (epoché) di ciò che si osserva, lavorando col paziente attraverso la prossimità dell’incontro, per permettere l’accesso empatico alla sua Weltaunschaung (visione del mondo). 

 Questo significa rivivere  in sé stessi, per quanto possibile, il  vissuto psichico del paziente e accostarsi alla crisi come ad una possibilità per fare è un’esperienza di cambiamento  volta ad una trasformazione, per cui assume  significato.


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